Il fulcro della narrazione risiede dello stabilimento della Confetteria Conforti, fondata dal nonno di Achille prima del secondo conflitto mondiale, da sempre un punto di riferimento al Nomentano, almeno fino ai combattimenti tra tedeschi e partigiani, che hanno portato ad un luogo divelto ma ricco di storie e ricordi che porta Achille, con il supporto della moglie Cecilia, a raccogliere la sfida della ricostruzione, affiancati dall’amico Carlo Russo e dalla moglie Rosa.
Tutta la vita dei quattro protagonisti scorre intorno alla ricostruzione della fabbrica, che vede crescere anche i loro due figli, Paride ed Ettore, tanto mite e riservato il primo quanto carrierista il secondo, oltretutto sostenuto dalle ambizioni paterne, oltre alla bellissima figura di Rebecca Russo, instancabile e ribelle nonostante l’ostracismo dell’epoca che cercherà in tutti i modi di tarparle le ali.
Lo svolgimento scorre con delicatezza nel narrare l’attività della confetteria, tra il profumo delicato di mandorle, il rumore dell’Anita (la storica bassina utilizzata in produzione), l’aroma dello zucchero caldo, delle nocciole e del cioccolato, tra la musica degli anni sessanta e le scelte controcorrente delle straordinarie femmine che popolano le pagine di questo bellissimo romanzo.
La Confetteria Conforti è esistita davvero ma quello che più colpisce in questo romanzo è la figura femminile, il ruolo della donna cui i più aspiravano nel periodo storico in questione e ciò che invece una donna intelligente ha preteso d’essere, il tutto narrato da una penna raffinata, garbata e indimenticabile. Mi sento di consigliarne la lettura, in quanto scorrevole come un soffio di vento, leggera ma non priva di significato… un libro perfetto per l’estate!
Oggi affronto una scrittrice che non sempre viene apprezzata eppure a parer mio scrive molto bene, sarà che è molto introspettiva e non a tutti può piacere, ma collima perfettamente con i miei gusti.
Qui siamo di fronte ad un dialogo continuo tra due persone che si erano perse, che ora si ritrovano, che condividono un momento doloroso e che, dopo poche semplici parole, si ritrovano davanti a tanti ricordi e al continuo confronto sui perchè del loro distacco, sul come raggiungere la felicità.
Amanda e Tommaso si ritrovano e si cercano, si confidano e si aprono come mai avevano fatto prima, ritrovano la complicità ma non riescono a ritornare indietro, non possono dimenticare dopo “dodici barra dieci anni e mezzo” di silenzi, non dopo una mail di cortesia a seguito del decesso del padre di Tommaso; eppure Amanda gli scava nell’anima, vuole sapere, nascono confessioni dinanzi ad uno schermo, quelle che di persona non si fanno, facendo emergere il ritratto di due persone piene di dubbi e di “se”.
Tommaso ha due figli, una moglie, un padre che, andandosene, ha portato con sè per sempre una parte nascosta della moglie, mentre Amanda è un’insegnante che si fa le stesse domande che spesso si pongono i propri alunni, piena di dubbi e di ansie, alla ricerca di cosa dia il senso alla vita… e alla fine in queste pagine si legge dell’amore, di quello che c’era e di quello al presente, si capisce che se sbagliando si impara si apprende anche amando.
Ho letto anche molte critiche in merito a questo romanzo, eppure io lo ritengo sempre attuale, in un momento storico come questo in cui le famiglie si sfasciano in continuazione, in cui non c’è la pazienza di costruire un rapporto duraturo basato su dei mattoni solidi di valori e di concretezza; è un lavoro breve, intenso e alla fine pregno di quei valori che molte persone stanno dimenticando lungo la strada causando quelle troppo frequenti fratture familiari cui stiamo assistendo con sempre maggior frequenza negli ultimi decenni.
E’ da un po’ di tempo che leggo molto ma che scrivo poco, quindi oggi affronto uno dei libri di più recente lettura: “Kala”, esordio dell’irlandese Colin Walsh.
E’ la sera del 3 novembre 2003 quando Kala esce di casa per non farvi più ritorno, ma solo nel 2018 vengono rinvenuti dei resti umani nei pressi della casa in cui la ragazza viveva con la nonna, episodio in occasione del quale vengono rivangati, dopo quindici anni, momenti e verità scavati nel passato.
La narrazione vuole essere una sorta di puzzle emotivo che si stende tra più piani temporali e nella lenta narrazione dei dettagli psicologici dei personaggi che popolano la vita di Kala e che oggi ne rivangano la memoria, tra sentimenti di amicizia, nostalgia e il dolore per la perdita di un’amica. Ritengo esso voglia essere un romanzo di formazione in cui si dipanano le conseguente di una tragedia che inevitabilmente cambia i destini dei personaggi, in cui l’assenza dell’amica perduta rappresenta un’ombra oscura e indelebile.
E’ un romanzo dalla narrazione lenta, talora anche di atmosfera, che in alcuni punti inizialmente ho apprezzato grazie al fascino che Kala emana, alla sensazione di estate che vi si respira, potendo quasi toccare con mano il profumo dei campi di grano cotti dal sole in cui la protagonista si muove, eppure, almeno nel mio caso, la delusione mi ha attesa dietro l’angolo perchè il libro si è fatto sempre più caotico con lo scorrere delle pagine, per arrivare ad un finale incomprensibile o che forse io non ho colto, stanca dei vaneggiamenti descrittivi.
Si tratta di un romanzo osannato e che gode di ottime recensioni, ma che per me è stata un’occasione persa: non è un thriller, poteva essere un’opera più poetica se avesse proseguito nella narrazione delicata delle prime pagine, invece l’ho trovato un esempio di caos narrativo peggiorato forse da una pessima traduzione o semplicemente da una cattiva scrittura, come la discutibile scelta di utilizzare l’intercalare “tipo”, con una frequenza tale da risultare fastidiosa, nemmeno si trattasse di un dialogo tra adolescenti sgrammaticati.
Oggi vi propongo un romanzo diverso dal solito, un noir gotico scoperto per caso, anche questa volta grazie ad un gruppo di lettura, iniziato timidamente e con molti dubbi stante l’allontanamento dai miei generi letterari favoriti, ma con la volontà di provare ad uscire dalla mia zona di comfort.
Il risultato è stato pienamente favorevole, trovandomi dinanzi ad un incubo delirante ambientato all’interno di un’oscura villa fiamminga, dentro la quale le Eumenidi, insieme ad altri personaggi mitici, si trovano ad essere imprigionati sotto mentite spoglie umane; tuttavia la mitologia viene stravolta dall’autore in versione eretica, in cui gli dei della Magna Grecia divengono dei meschini burattini umani.
La narrazione si apre con la presenza di un gruppo di bizzarri esseri umani, riuniti al cospetto del morente prozio Cassave ed è proprio qui che possiamo ammirare la bravura dell’autore nella minuziosa descrizione dei personaggi, dai due annoiati fratelli Jean Jacques e Nancy, al dottor Sambucque, interessato unicamente ai vizi della gola, al cugino Philarete, appassionato tassidermista, per arrivare alle signorine Rosalie, Eleonore e Alice, bigotte e ordinarie, e alla famiglia Dideloo e all’inquitante figlia Euryale; non da ultimo incontriamo Lampernisse, un ex venditore di vernici che lamenta il disagio di stare al buio, e i Groboin, una coppia di anziani avidi e interessati unicamente al denaro. Figura rilevante e che acquista sempre maggior importanza nella prosecuzione della lettura è Eisengott il quale, pur non vivendo nella magione, risulta essere strettamente legato ad essa.
All’interno della casa apparentemente regna la calma, tuttavia ben presto si appalesano i misteri quando Lampernisse, all’interno della soffitta, rinviene degli esseri mostruosi in miniatura, per arrivare poi alle prime morti misteriose e raccapriccianti, sino al precipitare della situazione nel corso della notte di Natale, quando gli orrori si eleveranno alla massima potenza, quando avverranno le trasformazioni degli abitanti della casa, quando la narrazione ci porterà ad un finale, in crescendo, degno di un film horror, accompagnando il lettore ad una visione quasi cinematografica, tant’è stata la bravura dello scrittore, e ci si troverà immersi nella potenza degli dei, in una forza devastante che spiegherà tutto d’un tratto le identità di ogni singolo appartenente alla casa Malpertuis.
Alla fine ci si rende conto di come l’autore voglia rappresentare, sotto il perbenismo della provincia fiamminga, qualcosa di malefico che cova in silenzio, facendo emergere l’irrazionalità della potenza divina che continua a sopravvivere nonostante la quotidianità moderna cerchi di relegarla nell’oblio.
Avevo letto “Parti e omicidi” della medesima autrice, motivo che mi ha spinta ad approfondire il modo di scrivere alquanto originale di Murata Sayaka che, anche in questo romanzo, non si smentisce affatto e non delude.
La protagonista è Furikura Keiko, una trentaseienne molto introversa e che preferisce vivere secondo i proprio canoni, discostandosi in toto dalle aspettative altrui e scegliendo di lavorare in un konbini, piccolo convenience store aperto ventiquattro ore al giorno e sette giorni a settimana. La famiglia e gli amici sono preoccupati per le basse aspettative che Keiko sembra dimostrare, sperando che la stessa decida di impiegare meglio il proprio tempo costruendosi una famiglia. Keiko però appare totalmente incapace di adeguarsi alle aspettative altrui, tant’è che anche nel piccolo universo del konbini mantiene il proprio spirito anticonformista, limitandosi a rispettare le poche regole richieste per mantenere l’efficienza professionale ed essere una commessa perfetta, stante il fatto che da diciott’anni è quello il proprio mondo, l’unico in cui sembra capace di vivere ed essere se stessa.
Il tutto finchè non incontra Shiraha, uno strambo collega dalla mentalità retrograda e privo di alcuna voglia di lavorare, che cerca di imporsi sulla volontà di Keiko inducendo il lettore ad una sana rabbia (io personalmente lo avrei preso a calci nel sedere). Per conoscere la scelta di Keiko, se dedicarsi a Shiraha oppure ritornare al mondo del konbini, è necessario leggere il libro, ma voglio evidenziare il modo di scrivere dell’autrice e i suoi contenuti, che pongono l’accento, con stile asciutto e spesso claustrofobico, su una società profondamente diversa dalla nostra, dove la cieca obbedienza alla regola precostituita è praticamente un obbligo, dove il ragionamento critico non trova spazio e l’adeguarsi alla massa è quasi un dogma.
Non è detto che sia un genere letterario adatto a tutti, ma si legge in una giornata grazie alla scorrevolezza che permea comunque un testo di poche pagine.
Dopo aver divorato il primo libro, qui ci troviamo di fronte all’evoluzione della famiglia Florio, in cui l’alternarsi costante di Vincenzo e di Ignazio, nomi che ricorrono ad ogni generazione e che per comprendere al meglio è necessaria un’attenta lettura di ambedue i volumi, dà i natali a Ignazziddu, dal carattere debole e che segnerà per sempre le vicende familiari, di fatto portando al tracollo tutto l’impero creato dai suoi predecessori.
Oramai la famiglia Florio ha vinto sull’ostruzionismo della città di Palermo, i tempi della miseria sono lontani grazie alla loro determinazione imprenditoriale, ha palazzi, fabbriche, navi, tonnare e denaro a profusione, tutti i membri di essa sono ammirati e rispettati, il che rappresenta un buon inizio per il giovane Ignazio che, nato nella ricchezza, non porta con sè la fiamma del riscatto che ha permesso ai suoi avi di crescere economicamente e socialmente. Egli vuole spingersi verso Roma, verso l’Europa, soprattutto verso la politica, senza averne però le capacità; si fida delle persone sbagliate senza riporre fiducia in coloro i quali ne sarebbero meritevoli, ha un cuore gelido per aver dovuto abbandonare un amore forse dannoso per il proprio destino, è totalmente incapace di provare empatia per chiunque. Il danno finale lo fa Ignazziddu, suo figlio, che a poco più di vent’anni si ritrova in mano un impero, che è totalmente impreparato a gestire, pur provandoci ma senza risultati apprezzabili; Ignazziddu fa parte della famiglia ma non ha nulla dello spirito dei Florio, a parte la presenza di Franca, donna capace al pari di Giovanna, la moglie di Ignazio.
Infatti la grande protagonista del secondo volume è proprio Franca, regina bellissima, innamorata, gelosa, desiderosa di ricevere qualche briciola di affetto eppure in grado di creare attorno a sè una corazza atta a difendere ogni sua debolezza dinanzi alla società; Franca deve conquistare il proprio posto all’interno di una famiglia potente e può farlo solo con il distacco dai propri sentimenti, al pari della suocera Giovanna e della cognata Giulia, le quali hanno già compreso quanto alto sia il prezzo da pagare per essere intoccabili e rispettate.
Questo secondo volume si presenta molto più articolato del primo, è intriso di politica, di storia ed è molto descrittivo in merito ai cambiamenti della società nel corso degli anni, tant’è che io l’ho trovato più impegnativo del primo, che avevo apprezzato maggiormente, ma quello che più risalta è come in queste pagine si apprenda del crollo dell’impero dei Florio, a causa dell’incapacità e della debolezza di Ignazziddu, che mattone dopo mattone riesce a distruggere tutto il valore creato dai suoi avi con fatica e determinazione, per incapacità e a seguito di pessimi consigli. Si legge di una città violenta, problematica, scontenta eppure l’atmosfera è sempre la stessa, quella circondata dalle acque cristalline del mar di Sicilia, quella tipicamente mediterranea che ancora una volta mi ha incantata.
Sono due libri perfetti per l’estate, volendo stagionalizzare le letture, cosa che io abitualmente faccio per meglio immergermi nelle atmosfere descritte dagli autori, motivo per il quale ho atteso per poterveli proporre. Sono davvero tanto tanto belli.
Oggi affronto un libro letto oramai molti mesi di fa, ma talmente corposo che ho atteso un po’ per descriverlo a chi ancora non lo avesse letto: si narra dell’ascesa e, nel volume successivo, della decadenza, della famiglia Florio, della loro storia a partire dal 1799, anno in cui da Bagnara Calabra sbarcano a Palermo, tra le frustrazioni di parte della famiglia e le mire espansionistiche dei maschi di casa.
I fratelli Paolo ed Ignazio Florio, una volta raggiunta Palermo, in breve tempo portano la loro bottega di spezie ad essere la migliore della città, grazie alla loro caparbietà e alla voglia di riscatto, raggiungendo ricchezza e potere; con grandissima ambizione avviano il commercio di zolfo, acquistano beni immobiliari e creano una compagnia di navigazione, fondando di fatto un vero e proprio impero in brevissimo tempo. Seguirà l’attività di Vincenzo, figlio di Paolo, che con gran capacità imprenditoriale, fonderà le Cantine Florio rendendo il marsala, vino da poveri, un nettare degno degli dei, prodotto per il quale ancora oggi ne ricordiamo il nome; ben presto realizza, a Favignana, anche un metodo per la conservazione del tonno, in lattina e sott’olio, praticamente come noi lo conosciamo oggi, portandone quindi il consumo a livello europeo.
La città di Palermo osserva incredula la loro espansione, tuttavia pur sempre con disprezzo e con malcelata invidia, conservando per la famiglia Florio sempre l’epiteto di stranieri e di facchini e non accettando che tanta spietata caparbietà possa aver portato così in alto un’imprenditoria importata dalla Calabria; eppure l’ambizione dei Florio tanto raggiunge punte elevate nel commercio quanto ci troviamo di fronte a degli uomini fragili dal punto di vista umano e degli affetti, uomini che senza delle donne eccezionali accanto non sarebbero nulla. La moglie di Paolo, Giuseppina, sacrifica ogni cosa e ogni affetto per la stabilità familiare, mentre Giulia, giovane milanese che fa il proprio ingresso in famiglia quale compagna di Vincenzo, diviene una donna potente ed inattaccabile.
E’ un libro in cui si respira il profumo dell’Aromateria dei Florio e l’odore del mare, in cui si ammira l’ascesa di due uomini capaci ed ambiziosi, in cui il sacrificio di ciascuno porta a dei frutti rapidi ed insperati, che si oppone a tutte le malelingue che li vorrebbero trascinare a terra, rose dall’invidia e dalla cattiveria, eppure i Florio volano alto, al di sopra di tutto, in una Palermo che i commercianti locali vorrebbero solo per se stessi ma che viene conquistata completamente da Paolo e Vincenzo, nonostante tutto.
Eppure non ogni cosa andrà benissimo, ma lo vedremo nel seguito del primo romanzo.
Questo è uno di quei libri scelti a sentimento, a partire dal calore di una copertina e dal titolo assolutamente “cozy”, volume del quale ho iniziato la lettura appena è entrato in casa e che ho voluto in formato cartaceo proprio per poterne accarezzare la copertina e guardarmela nemmeno fosse un pasticcino (eh lo so, ho la passione per i libri oltre che per la lettura, nonostante io sia un’accanita sostenitrice degli ebooks).
La narrazione parte dalla figura di Patricia, la quale non ha più notizie della sorella Madeleine dal 1987, anno in cui ella decise di partire alla volta della Svezia per poter svolgere un tirocinio nella comunità parrocchiale del paese; nonostante la rassegnazione raggiunta nel corso degli anni, Patricia riceve una lettera contenente la collana che lei stessa regalò alla sorella, inducendola a ripartire alla volta della costa svedese, dopo esserci già stata in precedenza nella infruttuosa ricerca di notizie di Madeleine.
Una volta raggiunto il paese, Patricia trova alloggio al Bed & Breakfast and Books, gestito da Mona e frequentato da un gruppo di donne del luogo, le stesse che hanno organizzato un circolo di lettura alquanto improbabile, ma che a lei appare quale un luogo assolutamente accogliente dal quale partire per capire cosa sia accaduto alla sorella e chi sia stato l’autore della missiva contenete la collana.
Il romanzo si svolge lungo due linee temporali, in quanto narra anche le vicende di Madeleine oltre a quelle di Patricia, dando vita ad un romanzo in cui si intrecciano le vite di molte donne in cerca di un futuro sicuro, tra storie che scaldano il cuore e paesaggi mozzafiato.
E’ un libro per chi, come me, ama evadere anche con alcune letture soft e che apprezza le ambientazioni ricche di elementi naturali e che donano quella magia che solo le atmosfere nordiche possono dare.
“A volte il cielo era bello, ma io amavo il vento, la pioggia, le nuvole. La pioggia mi incollava i capelli sulla fronte, nel collo, negli occhi. Il vento mi asciugava i capelli, mi carezzava il viso”.
Dopo aver letto “Trilogia della città di K.” sono rimasta molto colpita dalla scrittura asciutta, decadente e graffiante di Agota Kristof, autrice ungherese naturalizzata svizzera, nata a metà degli anni trenta e che ha scritto quasi esclusivamente in francese, autodefinendosi una “analfabeta” non essendo in grado di padroneggiare alla perfezione la lingua di adozione.
Qui siamo di fronte ad un libro di nemmeno cento pagine ma che cattura il lettore dopo poche righe: conosciamo Tobias Horvath, un emigrato che sta affogando nella noia costante di una vita abitudinaria, nella ripetizione di una gestualità volta esclusivamente alla mera sopravvivenza, dal lavoro noiosissimo e ripetitivo, alla miseria incalzante che però risulta essere meglio di ciò che si è lasciato alle spalle.
Nato poverissimo in “un villaggio senza nome, in un paese senza importanza”, trascorre l’infanzia sotto l’ombra della vergogna di una madre mendicante, ladra e prostituta, di una madre che non ce la fa e che raccoglie gli scarti della società per sfamare e vestire il figlio. Tobias rimane l’unico figlio della donna, quello che sopravvive a rapporti occasionali della madre e, probabilmente, a qualche interruzione di gravidanza e tra gli uomini che entrano ed escono da casa e dal letto della madre, scopre chi è il suo vero padre.
Dopo aver tentato di porre in atto l’omicidio dei due fedifraghi egli fugge inventandosi una nuova vita da orfano, rifugiandosi nella scrittura e nella idealizzazione di Line, la donna immaginaria dei suoi sogni. Line un giorno lo raggiungerà nelle vesti della sua sorellastra, pur se inconsapevole di esserlo, dando origine ad un amore impossibile che non supererà mai il divario socioeconomico dei due, generando emozioni e dolore in Tobias.
Sono poche pagine, solo novantanove più poche righe di epilogo, ma intrise di attesa, di emozioni, di dolore e di accettazione, forse l’unica soluzione alla vita irrisolta del protagonista.
Oggi vi parlo di un libro conosciuto esclusivamente grazie ad un gruppo di lettura, che personalmente non avevo votato nei sondaggi richiesti per la scelta del titolo ma che alla fine ho letto ed amato. La maggior parte dei membri del gruppo non lo ha apprezzato ma per me è stata pura poesia grazie ad una scrittura che è come un canto; è stata lamentata una trama inconsistente ma se amate i testi riflessivi, quelli che vi accompagnano come una carezza nei momenti di relax, che vi riscaldano il cuore come una copertina calda, allora probabilmente fa per voi.
I protagonisti del romanzo sono sei tra astronauti e cosmonauti (questi ultimi di nazionalità russa, da qui la differenza di terminologia, cosa che ho appreso strada facendo), i quali vengono dagli Stati Uniti, dalla Russia, dall’Italia, dalla Gran Bretagna e dal Giappone, le cui personalità non sono molto delineate singolarmente ma solo nel loro insieme in quanto i singoli caratteri si fondono in un unico che funziona benissimo senza scissioni tra di loro. I brevi tratti di caratterizzazione personale si esplicitano unicamente nei pochi momenti di intimità in cui ricevono notizie da casa, da coloro i quali li immaginano orbitare al di sopra delle proprie vite, nel mentre trascorrono la propria quotidianità cibandosi di cibi disidratati e lottando contro l’assenza di gravità per mantenere al meglio le proprie condizioni fisiche.
La loro missione a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è l’ultima prevista prima dello smantellamento della stessa e grazie ad essa osservano il pianeta scorrere al di sotto di essi, mentre trascorrono il loro tempo dormendo, osservando ricordi, ma sempre quali spettatori distanti con uno sguardo rivolto verso i continenti che scorrono sotto i loro occhi, riflettendo sul significato delle loro esistenze con uno sguardo rivolto al passato e le aspettative nei confronti del futuro.
Qui c’è tutto il contrasto tra l’infinità dello spazio e la fragilità della vita terrena, tra la sensazione di onnipotenza che si può provare fluttuando nello spazio e quella di inutilità rispetto alla vita concreta che pulsa al di sotto della loro orbita. Infatti nonostante il pesante addestramento, lo studio richiesto, le capacità fisiche, alla fine essi sono irrilevanti nell’immensità dello spazio, così come lo sono i terrestri a confronto con l’immensità degli oceani, delle foreste, delle metropoli illuminate durante la notte, dei continenti che scorrono al di sotto. Di fronte a tutto ciò si percepisce la presenza dell’essere umano, tuttavia invisibile di fronte all’immensità di tutto il resto e dinanzi a ciò gli astronauti sono solo uomini lacerati dalla vita che prosegue anche in loro assenza e con la consapevolezza di trovarsi un una condizione di unicità rispetto alla maggior parte degli esseri umani.
La scrittura è incredibile, vi lascio qualche assaggio dei passaggi che più mi hanno affascinata.
“Nella fotografia l’avvicinamento del tifone. È straordinario riuscire a vedere la curva dell’aria che forma gli alisei, il loro flusso verso ovest lungo l’equatore, che raccoglie il calore della superficie dell’oceano. I banchi di nubi formano colonne che attingono forza dall’oceano; più caldo è l’oceano più violenta è la tempesta “.
“Ecco Cuba nel rosa del mattino. Il Sole rimbalza ovunque sulla superficie dell’oceano. I fondali turchesi dei Caraibi e l’orizzonte che fa apparire il mar dei Sargassi”.
“Dopo una settimana o poco più di stupore davanti alle città, i sensi cominciano a espandersi e si innamorano di nuovo della Terra di giorno. La semplicità della terra e del mare senza esseri umani. Il modo in cui sembra respirare, come un animale. L’indifferente ruotare del pianeta nello spazio indifferente e la perfezione della sfera che trascende ogni linguaggio. Il buco nero del Pacifico che diventa un campo d’oro o i puntini della Polinesia Francese , le isole come campioni di cellule, gli atolli come losanghe di opale; poi la spirale del Centro America che ora si allontana sotto di loro per mostrare le Bahamas e la Florida e l’arco di volumi fumanti sulla placca caraibica. L’Uzbekistan in una distesa di ocra e marrone, la bellezza delle montagne innevate del Kirghizistan. L’Oceano Indiano, pulito e brillante, con i suoi blu indescrivibili. Il deserto albicocca del Taklamakan, inviso dalle deboli linee dei letti dei torrenti, confluenze e separazioni. È il percorso diagonale della galassia, un invito nel vuoto sfuggente”.
“…questa Terra priva di interruzioni. Vedrete la sua pienezza, l’assenza di confini se non la linea tra mare e terraferma, dicevano. Non vedrete paesi, solo una sfera rotante che non conosce possibilità di divisioni, e tantomeno di guerre”.
Non aggiungo altro… non è una meraviglia?
Nota: il romanzo é risultato essere il vincitore del Booker Prize 2024.