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“La vita di chi resta” di Matteo B.Bianchi

“Quando tornerai a casa non ci sarò più…” e pensi alla fine di un rapporto, ad una partenza, non che quello che è stato un amico, un amante ed un compagno si sia tolto la vita e che l’abbia fatto a casa del proprio compagno, facendo quindi partire la narrazione dalla fine e portando l’autore a procedere a ritroso, percorrendo molti passi indietro, tra cadute nell’abisso del dolore, pentimenti, frammenti di sopravvivenza.

E’ un libro doloroso, autobiografico, scritto con un coraggio che fa quasi paura per la lucidità con cui l’autore ha messo alla pubblica gogna non solo il proprio dolore ma anche la sua omosessualità; si parla non solo di lutto ma di suicidio, un grande tabù ancor oggi e che per chi vi sopravvive oscilla tra la mancanza di rispetto e una concatenazione di se e di ma.

Il gesto dell’ex compagno lascia il protagonista in uno stato di sensi di colpa per non aver voluto ascoltare quella che era forse una richiesta di aiuto, rinchiuso com’era nel proprio ego, lo lascia in una serie di dubbi: poteva salvarlo? Avrebbe potuto fermarlo? Esistono delle responsabilità a carico di chi è rimasto? Nessuno potrà mai fornirgli queste risposte, tuttavia non è possibile tornare indietro e la confusione fa da padrona ad alimentare il rimorso. E se vi sono delle colpe quale potrebbe essere il loro grado di gravità? In realtà è palese che di colpe non ce ne sono, nonostante sia una verità difficile da accettare, ma è ciò che un’uscita di scena così repentina instilla in coloro i quali hanno vissuto accanto al suicida, i quali si tormentano, si dilaniano l’anima in domande continue, in pensieri distruttivi, in un dolore immenso che non trova riposo.

Qui si comprende come la dipartita, il gesto estremo, abbia lasciato dietro di sè tanta distruzione ma nel contempo anche tanto amore, tant’è che il romanzo risulta essere quasi consolatorio nel dimostrare il dolore nella sua interezza, con una trasparenza che di romanzato non ha nulla e che aderisce perfettamente a quella che potrebbe essere la realtà di chiunque.

La vita di chi resta è questo, è il buio del dolore più profondo, del rimorso e dei sensi di colpa, ma anche la luce della ripartenza, del perdono verso se stessi, di quella luce di speranza che viene infusa ai sopravvissuti; è un romanzo difficilissimo da descrivere in quanto contiene capitoli che volano velocissimi grazie alla delicatezza di scrittura dell’autore (bravissimo!), mentre si soffre in quelli che scorrono a fatica, nella lentezza di un dolore infinito, di inutili sedute psicoterapiche, di incontri con il mondo esoterico dei medium. Alla fine il dolore se ne va solo se ci si passa attraverso, questo l’ho capito da me quando me lo sono trovato davanti, ed alla fine è ciò che ci insegna questa lettura, perchè se anche all’esterno si indossa una maschera dentro di sè si è lacerati, fino a che non viene elaborato il dolore che ci attanaglia, dolore che l’autore è riuscito a sublimare nella scrittura.

Nota di interesse: il romanzo è vincitore del Premio Stresa e del Premio Orbetello.

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“La neve in fondo al mare” di Matteo Bussola

Ero reduce dalla lettura di “L’invenzione di noi due”, dello stesso autore, la cui scrittura delicata e tenue mi aveva colpito favorevolmente, pertanto alla prima occasione ho voluto approfondire con una lettura diversa ma della medesima penna.

Confesso si sia trattato, a mio parere, di una lettura faticosa, pur se sviluppata su relativamente poche pagine, pur se scritta benissimo e con la consueta grazia che caratterizza Bussola; si tratta di un libro sulla fragilità adolescenziale, fotografata in un periodo devastante quale quello del post Covid, quindi assolutamente attuale, periodo in cui se le persone dal carattere più forte sono state mosse da sentimenti di rabbia quelle più deboli ne sono uscite con le ossa rotte.

Queste pagine fotografano la psiche di un gruppo di ragazzi, affetti da disturbi alimentari e da incapacità di relazionarsi a causa della mancata gestione della rabbia, il tutto condito dalla necessaria presenza dei genitori, anch’essi sperduti tra atteggiamenti di negazione e problemi familiari, tra cui spesso l’incapacità di dialogare con il propri coniuge, specie alla luce del problema sul quale è centrato l’argomento della narrazione.

La voce narrante è quella di un padre stanco che ci accompagna a conoscere gli altri personaggi e la loro speranza di rivalsa o, almeno, di una via d’uscita, tra i quali spicca la figura di una madre, autrice di un disperato monologo nel quale ammette di provare dei sentimenti d’odio nei confronti della figlia, tant’è il limite della stanchezza e dell’impotenza nei confronti del disagio mentale. Ci sono le sconfitte di un padre o di una madre, quelle che si riassumono in una sola frase: “E’ che passo la vita a cercare di svuotare il mare con un ditale”. La totale disperazione di un genitore.

Non c’è un vero e proprio lieto fine, ma solo un inizio intriso di speranza, tant’è che è un romanzo che mi ha disturbata, forse per le lotte feroci che ho avuto con mio figlio in età scolare e che mi hanno devastata, lotte e incomprensioni che qui ho ritrovato e che mi hanno generato uno stato d’ansia. Ma è scritto bene, molto bene, nonostante dopo questo io abbia bisogno di una pausa dai libri introspettivi.

Posso dire che vale la lettura, forse a tratti un po’ rallentata e monotona, senza grandi colpi di scena, ma le pagine sono poche e la consueta delicatezza nella narrazione che contraddistingue questo autore è sempre gradevole; in questi mesi estivi le letture sono state tante, ad agosto ho divorato dieci libri, pertanto volevo proporvene qualcuno prima di iniziare con la carrellata descrittiva dell’ultimo viaggio che ho alle spalle, quindi rilassatevi con questo romanzo e poi tenete pronto lo zaino per ripartire!

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“Lacci” di Domenico Starnone

“Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”.

Inizia così questo romanzo, con una lettera che Vanda scrive al marito che ha lasciato la casa familiare lasciandola in preda ad una tempesta di frustrazioni, di rabbia e di domande prive di risposta; lei e Aldo si sono uniti in matrimonio giovanissimi, un po’ forse per desiderio di indipendenza, per poi ritrovarsi a trent’anni con una famiglia a carico in una società profondamente cambiata, che lo porta alla fuga, senza nemmeno tentare un dialogo con Vanda, semplicemente per trovarsi a fianco di una donna giovane e piena di leggerezza, che gli regala la spensieratezza assente dal rapporto con la moglie.

L’intero svolgimento del libro mette in evidenza la vita di Aldo a Roma in contrapposizione a quella di Vanda e dei propri figli a Napoli, nelle difficoltà di una donna che da un giorno all’altro si ritrova a fare i conti con la solitudine e con gli inevitabili problemi finanziari, una lunga riflessione incentrata su quanto si è disposti a sacrificare pur di non sentirsi in trappola, ma anche su cosa perdiamo quando ritorniamo sui nostri passi, il tutto quindi imperniato sui quei “lacci” che legano gli individui gli uni agli altri e che delle volte basta un niente a farli riaffiorare.

E’ una narrazione che ci fa vivere una fuga, un ritorno, una serie di fallimenti, il tutto in un libriccino sottile ed introspettivo; se ne è parlato molto bene ma, nonostante io forse vada un po’ controcorrente, ho quasi sostenuto la posizione del protagonista quando ha scelto la fuga da una donna che mi è risultata insopportabile dopo poche righe e che, anche volendo analizzare la situazione dal punto di vista dell’autore, non mi ha lasciato una bella sensazione nemmeno al termine della lettura.

E’ un libro sul ritorno? Sì. Ma siamo sicuri che il ritorno sia sempre la soluzione corretta?

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“Domani, domani” di Francesca Giannone

“Da soli si può andare in giro. In due si va sempre da qualche parte”.

Kim Novak in “La donna che visse due volte (Vertigo)”, Alfred Hitchcock.

Dopo aver letto il criticatissimo “La portalettere”, della medesima autrice, che a me onestamente è piaciuto molto in quanto scorrevole, scritto bene, da evasione e assolutamente gradevole, mi sono accinta ad intraprendere anche questa seconda lettura, con qualche perplessità visto che ne hanno detto peste e corna e invece l’ho trovato bellissimo, anche meglio del romanzo precedente (non ricordo se ve ne ho parlato, in caso rimedierò quanto prima).

L’intera trama ruota intorno al saponificio di Araglie, una cittadina salentina, fondato nel 1920 dalla famiglia Rizzo e gestito con amore e passione dai due nipoti del fondatore, Lorenzo ed Agnese, nonostante la scarsa attitudine e il pochissimo se non nullo interesse da parte di Giuseppe, padre dei due ragazzi, tant’è che nello snodarsi degli eventi si comprenderà quale sia il motivo di tale indifferenza.

Questo tarlo che rode l’anima di Giuseppe lo porterà a prendere la decisione di svendere lo stabilimento alla concorrenza, generando una insanabile frattura all’interno della famiglia, con la frustrazione di Agnese e la rabbia di Lorenzo, pericolosamente condita da una incrollabile voglia di rivalsa che gli rovinerà l’esistenza.

Non procedo nella trama perchè sarebbe un peccato rovinarvi la lettura, tuttavia l’intero romanzo è condito dall’amore infinito di Agnese per la creazione dei suoi prodotti, dalle sue capacità chimiche e sperimentali, dalla poesia che ella mette nella produzione e dal costante profumo di talco che caratterizza le sue saponette, il tutto accompagnato dalle capacità grafiche di Lorenzo, che disegna le locandine pubblicitarie e le confezioni dei loro prodotti, con una maestria artigianale che ancora oggi, a dispetto della globalizzazione e dell’industrializzazione, risulta tanto affascinante.

Dal 1959, anno del cambio di rotta dello stabilimento, il romanzo vede un intrecciarsi di storie e di personaggi, di voglia di rivalsa, di rapporti lacerati e di riscatto ad ogni costo, sempre contestualizzato in una narrazione estremamente scorrevole ed accattivante, che porta il lettore a divorare un capitolo dopo l’altro, nell’attesa del “domani” e sempre in un’atmosfera permeata dal profumo del talco.

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“Tutto il blu del cielo” di Mélissa da Costa

Ho riscontrato quanto spesso questa lettura venisse consigliata nei vari gruppi di lettura cui sono iscritta e, nel momento in cui mi sono apprestata ad approfondirne la trama, mi sono resa conto di averlo nella mia libreria Kindle da molto tempo, probabilmente acquistato in occasione di qualche offerta.

Le prime parole che ci accolgono all’apertura del romanzo sono pressapoco le seguenti: “Cercasi compagno/a di viaggio per un’ultima avventura”, inserzione pubblicata online da Émile in una giornata di fine giugno, deciso ad intraprendere un viaggio on the road, sempre desiderato e mai realizzato, con l’urgenza di sapere vicina la propria fine a seguito della infausta diagnosi di Alzheimer precoce. All’appello risponde Joanne, silenziosa e strampalata aspirante compagna di viaggio, chiusa in se stessa e dalla dubbia apparenza di compatibilità con il solare ventiseienne autore dell’annuncio… eppure il viaggio ha inizio, nonostante i dubbi sul possibile rapporto con Joanne, a bordo di un piccolo camper che Émile ha acquistato e rinnovato senza comunicare alcunchè alla propria famiglia, rea di soffocarlo con eccessive attenzioni e alla quale nulla comunica al momento della partenza.

L’intero viaggio si snoda attraverso boschi, torrenti, sentieri e stradine che attraversano le vette dei Pirenei, attraversando piccoli borghi in Occitania, nel mentre i due compagni di viaggio lentamente e con delicatezza cercano un punto di incontro, una dimensione in cui potersi incontrare nonostante il reciproco dolore che li accompagna.

Si tratta di una storia di rinascita che narra la scoperta dell’altro, con delicatezza infinita, con piccoli passi pazienti verso il buio, un libro magico in cui nello svelare il dolore di Joanne nasce l’amore di Émile che, con infinita dolcezza e comprensione, riesce a guarirla e a donarle nuovamente il sorriso nonostante la morte incombente lo stia schiacciando avvicinandovisi sempre di più; Émile riesce a vivere quest’ultimo viaggio grazie alla miglior compagna avesse potuto sperare di incontrare, grazie alla sua profonda lealtà che lo accompagnerà per mano fino all’ultimo sorriso.

E’ bello, bellissimo, leggetelo…

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“I sorrisi non fanno rumore” di Enrica Tesio

I SORRISI NON FANNO RUMORE

Avevo già conosciuto questa scrittrice in passato leggendo “La verità, vi spiego, sull’amore”, apprezzatissimo grazie alla verve ironica che accompagna tutto il romanzo già a partire dalle prime pagine, quindi ho affrontato anche questo libro con l’assoluta certezza mi sarebbe piaciuto. Indubbiamente è molto diverso da quello precedentemente citato, più sofferto, tuttavia sempre narrato con l’ironia tipica della Tesio, anche se in questo caso più sfumata nella serietà di un tema intriso di sofferenza: il rapporto con la figlia.

La narrazione prende inizio da un evento tragicomico, quando Toni, scrittrice di libri destinati all’infanzia, esordisce pubblicamente con una frase atta a sconfessare in maniera radicale l’esistenza di Babbo Natale, dando origine ad una serie di eventi concatenati e lesivi della sua immagine, nonostante il sollievo provato nel mettere in chiaro questa indiscutibile verità. Purtroppo i bambini presenti all’evento la prendono molto a male e, ancor più, i genitori, sempre onnipresenti nel voler tutelare i figli contro qualsiasi dispiacere, anche esagerando, a parer mio, nel pretendere di evitare loro qualsiasi dolore, qualsiasi delusione, qualsiasi esperienza di vita che permetta loro di crescere, esattamente come avviene nell’attuale società, generatrice di figli inconcludenti e incapaci di affrontare anche la difficoltà più elementare.

La necessaria fuga cui Toni è costretta la mette dinanzi ad una serie di riflessioni sul proprio passato, dando quindi origine ad una storia che ruota continuamente tra il concetto di presenza e quello di assenza, facendo capire al lettore come la melodia sia proprio nelle sfumature tra le note dell’esistenza. L’assenza citata riguarda la perdita di persone che non sono più presenti nel suo mondo, per motivi diversi, mentre la presenza si identifica con l’immenso amore provato nei confronti della figlia, nonostante la gelosia che la attanaglia a causa del rapporto che essa ha costruito con la nuova giovane compagna del padre, solare e che affascina la ragazza. Tutto ciò in un momento in cui il caos prende il sopravvento, tra il dolore dei ricordi che ancora persistono e che non riesce ad allontanare e il disastro di una routine crollata improvvisamente.

Il nodo del romanzo è nella comprensione che l’unica felicità possibile risiede in ciò che ci possiamo permettere, nell’accettazione degli errori e nel godere di ciò che tale accettazione ci concede, raggiungendo quindi una felicità semplice fatta di sbagli, di tempo che passa, di piccole cose che però sono in grado di fare la differenza.

E’ un libro intimo, sincero, molto onesto nell’ammissione dei limiti della protagonista, è rappresentato da una prosa lieve e delicata, nonostante la feroce analisi emozionale che viene affrontata, è una storia che alla fine si può adattare a qualunque di noi… l’ho letto in pochissimi giorni, nonostante non tutti i capitoli siano leggeri, ma è un romanzo che può far riflettere se affrontato nella maniera corretta.

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“Tre gocce d’acqua” di Valentina d’Urbano

Come di consueto tra una partenza e l’altra vi propongo qualche lettura per trascorrere al meglio le attese in aeroporto ed oggi voglio parlarvi di questo romanzo: intenso, struggente, bellissimo. L’autrice l’ho conosciuta grazie ad altri libri ma questa volta è riuscita ad intrecciare una trama di una bellezza assoluta: la storia si sviluppa attorno alle figure di Celeste, Pietro e Nadir, tre ragazzi legati indissolubilmente per tutta la vita grazie ad un fratello in comune e a tanto amore. Sono davvero simili come gocce d’acqua e per tutta l’infanzia si svolge un rapporto turbolento tra Celeste e Nadir, coetanei in lizza perenne per le attenzioni di Pietro, il fratello maggiore che li accomuna e per il quale provano una gelosia feroce.

Pietro rappresenta una figura carismatica, intelligente e la pazienza e la comprensione che prova verso i due ragazzini litigiosi sono esemplari, specie dopo la diagnosi che spiega i frequenti malesseri di Celeste, la quale solo grazie a Pietro trova un equilibrio con la malattia, Pietro che esprime tutta la propria delicatezza chiamandola “Riccio di mare”, nomignolo esemplificativo della fragilità interiore nonostante gli aculei caratteriali di Celeste.

Nadir è brutto, ruvido, indomabile, burrascoso, con Celeste scoppiano i litigi peggiori eppure per lei c’è sempre, sino ad instaurare un rapporto morboso di dipendenza affettiva, legati negli anni da un filo indissolubile nonostante l’assenza di legami di sangue. L’amore che li unisce è destabilizzante e a causa di ciò Nadir non riesce a mantenere nessun rapporto di coppia, tornando sempre a casa, da Celeste, per la quale continua ad esserci, nonostante tutto.

La scrittura è bellissima e diretta mentre scandaglia l’animo umano, mentre ci regala delle pagine emotivamente meravigliose; io l’ho iniziato la sera e terminato la mattina dopo, facendoci le ore piccole ed imponendomi una pausa di riposo, ma è stato totalizzante ed emozionante. Una di quelle letture che sono un dono raro.

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“1984” di George Orwell

Lo so, con questa lettura ho scoperto l’acqua calda, eppure mi sono resa conto che, pur conoscendone il titolo, moltissime persone non hanno mai pensato minimamente di leggerlo mentre, a mio avviso, questo è un testo che andrebbe letto nelle scuole. Sia chiaro che, visto il sistema sociale che attualmente ci allieta, non avrei la minima speranza che un libro così scomodo e anti sistema potesse venir preso in considerazione, motivo per il quale ve ne parlo… se anche una sola persona venisse incuriosita dalle mie parole e decidesse di affrontarlo per me sarebbe un successo.

Si tratta di un romanzo distopico assolutamente inquietante nell’immagine predittiva che fornisce del futuro, scritto nel 1949 grazie all’avversione dell’autore per i regimi totalitari conosciuti nel corso della guerra, senza alcuna indicazione politica di parte, ma esclusivamente connessa alla metodologia manipolativa usata.

Il romanzo è ambientato in una società estremamente totalitaria, denominata “Oceania”, in cui il governo dipende totalmente dal Partito, tant’è che è questo a guidare il controllo totale sui cittadini, soggetti a tecniche di sorveglianza e propaganda per il mantenimento dello status quo.

Il protagonista è Winston Smith, impiegato presso il Ministero della Verità, la cui mansione è quella di modificare la storia in maniera tale da adattarla ai diktat politici del momento, ma egli è una persona che non accetta il controllo e che tenta in ogni occasione di resistere alla sua influenza, pur se molto a fatica visto che nemmeno la libertà di pensiero può essere esercitata. I problemi per lui iniziano quando incontra Julia, una donna che condivide le sue opinioni e con la quale inizia una relazione segreta, purtroppo fino a che la loro ribellione non viene scoperta e i due vengono sottoposti ad un processo di rieducazione, comprensivo di torture fisiche e psicologiche fino alla completa rinuncia alla libertà e al pensiero deviante da quello imposto.

Proprio il pensiero è uno dei punti dominanti del romanzo in quanto il concetto di doppio pensiero viene posto in evidenza dall’autore, inteso come la capacità di accettare due idee contraddittorie in contemporanea, ma soprattutto con la convinzione della verità di ambedue; questo è il concetto alla base della propaganda del Partito, che proprio con il controllo della verità cerca di manipolare la mente e le scelte dei cittadini. Un altro concetto di punta del romanzo è dato dalla presenza del Grande Fratello, leader carismatico ed autoritario del Partito, ma soprattutto onnipresente; lo stesso linguaggio utilizzato nella società di Oceania, la “neolingua”, una lingua semplificata e antitetica rispetto al linguaggio indipendente, ha lo scopo di ridurre il pensiero critico e limitare la capacità di ragionamento dei cittadini, essendo scarna e priva di tutte quelle sfumature in grado di stimolare ed arricchire il pensiero logico.

E’ un libro impegnativo, in alcuni tratti anche molto pesante, ma che invita alla riflessione sulla natura del potere, sul controllo, sulla manipolazione da parte dei media, sulla lotta per la propria libertà, in un momento in cui c’è stata una manipolazione di massa, un largo utilizzo della massima “divide et ìmpera” e che, pur con il tardivo risveglio di una parte della popolazione coinvolta, ancora riesce ad addomesticare le masse, non fosse che per la debolezza attuale dell’essere umano, in una società in cui mancano la coesione, l’etica di base, la buona educazione e la gentilezza, lasciando ampio spazio quindi alla prevaricazione, all’arroganza e all’individualismo.

Se siete come me, che negli ultimi anni ho ragionato con la mia testa senza alcun coinvolgimento da parte del pensiero dominante, avete capito e ne apprezzerete la lettura; se non lo siete vi auguro di comprendere.

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“L’albero delle arance amare” di Jokha Alharti

Avevo scaricato su Kindle questo romanzo, testo in merito al quale non ne sapevo nulla, ma un po’ il titolo e un po’ la mia passione per le arance, il tutto condito dall’aspetto esotico del libro ha fatto sì che mi convincessi ad iniziarne la lettura.

Zuhur è una ragazza dell’Oman, trasferitasi in Inghilterra per motivi di studio, e con queste pagine vuole onorare il ricordo della nonna, di una nonna che non c’è più e la cui assenza ha lasciato un tale vuoto che nessuna fotografia o ricordo riescono a spiegare questa sensazione. La mancanza dell’odore di una persona amata, dei rumori prodotti dalla sua esistenza, dell’amore legato alla sua persona… tant’è che Zuhur, nella consapevolezza di una mancanza insostituibile, cerca di dar valore ad una presenza che non c’è più, a quella nonna che profumava di “muschio di zibetto, prezioso olio di aloe e terra antica”.

La figura di Bint ‘Amir diviene protagonista della narrazione, diviene una presenza esagerata nel colmare un’assenza, tra le parole scritte di una Zuhur tormentata dalla solitudine e dall’isolamento causato da una lingua straniera ed una cultura distante dalla propria, dall’impossibilità di esprimersi, dando quindi luogo ad una connessione di ricordi in cui, tra passato e presente, incontriamo la gioventù dolorosa di Bint ‘Amir, le rivoluzioni sentimentali della sorella, il vagare nella demenza di Shaykha, la lotta contro le convenzioni sociali di Kuhi e Imran, il tutto nella malinconia di una Zuhur affamata di esperienze, di nuova vita e di conoscenza di un amore mai provato.

Sono figure romanzate eppure estremamente concrete, condite da sentimenti reali e portati agli occhi del lettore con maestria e dovizia, tant’è che sembra quasi di vedere il colore dei datteri, la forma dell’albero di arance amare e il tintinnio della tenda di perline della camera di Imran; in queste pagine si respira l’atmosfera dell’Oman, il profumo del mercato, i tramonti mozzafiato, i fruscii delle palme di banane, si sente quasi il piacere dell’ombra regalata dall’albero oggetto del titolo. Si vola in continuazione nel passato senza mai portare ad una conclusione del presente, senza mai alcuno spazio per il futuro, non si conosce mai la protagonista, di lei resta solo il dolore, profondo ed intenso, per la nonna che non c’è più…

Non è un libro da leggere con leggerezza, va goduto una pagina alla volta, senza fretta di portarlo a conclusione, anche se io delle volte mi sono persa nel filo del racconto, spesso a causa dei nomi dei personaggi che ovviamente non sono affini alla mia cultura e che quindi mi hanno spesso spiazzata, ma sono pagine intrise di poesia, la scrittura è lenta ma sublime. Non a tutti può piacere, ma sicuramente si tratta di un testo di qualità, vincitore del Booker Prize internazionale, a mio avviso meritatissimo.

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“Finché il caffè caldo” di Toshikazu Kawaguchi

Di questo piccolo libro mi sembrava di avervene già parlato, ma evidentemente mi ero sbagliata: lo lessi l’estate passata, con maggiori aspettative di quanto poi il libro mi abbia donato, tuttavia essendo stato davvero un caso editoriale ho deciso di riprenderlo in mano e darvi qualche cenno in merito.

La narrazione si svolge all’interno di una vecchia caffetteria nella quale, si narra, sia possibile tornare indietro nel tempo prendendo un caffè, ma rispettando cinque determinate regole, precise e restrittive, tanto che spesso gli aspiranti viaggiatori hanno desistito dal tentativo; infatti, pur con la possibilità di poter ritrovare la felicità, tra le suddette regole è necessario occupare una sedia in particolare e sempre rispettando il limite temporale legato al raffreddamento di una tazza di caffè, pena l’impossibilità di ritornare al mondo reale.

Esplicata la procedura si dipanano tante piccole storie, ognuna legata ad un individuo che ha perso qualcosa o qualcuno oppure che ha un rimorso cui rimediare, ogni viaggio nel vapore del caffè è un pezzetto di vita umana, è un toccare con mano i sentimenti altrui, le disperazioni che non trovano riposo, il tutto articolato in quattro racconti, apparentemente scollegati tra loro, ma il cui filo conduttore è sempre il desiderio di ritornare indietro nel tempo per sanare una situazione in sospeso o per tentare di porre rimedio a qualche errore.

Il libro ha ricevuto una vasta eco nell’ambito editoriale, tant’è che sulla stessa scia ne sono seguiti degli altri, che però non ho letto nè sono interessata a farlo. Parere personale: è un libro piccolo piccolo, delicato, narrato con garbo ed educazione, con una leggerezza tutta nipponica ma… non sono riuscita ad apprezzarlo fino in fondo, a metà ero già annoiata. Comunque ci sono ritornata sopra proprio perché continuo a sentire dei pareri entusiasti in giro, magari qualcuna di voi lo apprezzerà, del resto questo un mio mero parere soggettivo quindi se lo leggerete parliamone e sarà un piacere!

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