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Novembre 2012

Dolci e desserts

Il mio croccante aspettando San Nicolò

Il croccante è un dolce antico che profuma di feste e di fiere paesane, la cui ricetta la si ritrova anche nel bellissimo libro “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, tuttavia se ne trova traccia anche su un testo spagnolo della seconda metà del quattrocento, portando quindi a supporre che la sua origine tragga le proprie fondamenta proprio in terra iberica; molti però sostengono che questo tipico dolce abbia origini italiane, nato intorno al 1200 nel sud d’Italia come derivazione di un tipico dolce arabo,  a base di mandorle, miele, zucchero e spezie.

Ciò che è certo è che a me ricorda l’infanzia, quando la mattina del 6 dicembre mi alzavo dal letto impaziente di correre in salotto per vedere se nella notte fosse passato San Nicolò e se mi avesse lasciato qualche dono: ricordo ancora i miei quattro anni, quando sulla poltrona trovai un mangiadischi arancione fiammante, che ancora conservo, ricordo il plastico ferroviario che San Nicolò (il mio papino) costruì lavorando in piena notte dopo essersi fatto un turno massacrante alla guida di un treno, in maniera tale che io non lo vedessi.

Ricordo le scorpacciate di dolci, soprattutto di carbone di zucchero e di meringhe, che allora chiamavamo spumoni, seduta davanti alla televisione, momento di grande festa perchè a scuola non davano compiti e quindi ero autorizzata a vedermi un film in più rispetto al telefilm della sera, ricordo il torrone, c’era sempre quello della Sperlari sia nella versione morbida che quello durissimo e che ancora adoro nonostante non abbia una buona dentatura.

Ricordo il pomeriggio, quando la mia mamma mi accompagnava alla fiera di San Nicolò, mentre già da lontano, scendendo dal bus, si sentiva nell’aria il profumo di caramello e di mandorle tostate… la stessa magia che ho ricreato oggi in casa mia, mentre preparavo il croccante.

Riepilogo degli ingredienti:

600 gr. di mandorle

700 gr. di zucchero

2 cucchiaini di succo di limone

4 cucchiai d’acqua

Procedimento:

Innanzitutto premetto di aver acquistato le mandorle con la buccia, quindi le ho scottate per un paio di minuti in acqua bollente per poterle spellare agevolmente, poi le ho tostate utilizzando una padella antiaderente: io ancora non sono riuscita ad acquistare il forno in quanto il mio non funziona più, quindi si tratta di una procedura da eseguire in forno, ma la padella si è rivelata essere un’ottima alternativa.

Successivamente ho sciolto lo zucchero in acqua e limone facendolo imbiondire, senza però arrivare a bruciacchiarlo, e vi ho versato le mandorle, metà delle quali intere e l’altra metà tritata grossolanamente con l’aiuo di un coltello, ho amalgamato il tutto e versato sulla leccarda del forno rivestita di carta oleata; a questo punto ho livellato il tutto aiutandomi con un foglio di carta forno bagnato e strizzato che ho premuto sulla superficie del croccante (e con una presina per non scottarmi), poi ho premuto ancora un po’ con  un limone tagliato a metà (anche l’arancio va benissimo) che, tamponato sulla superficie, ne aumenta l’aroma; prima che il composto solidifichi del tutto ho iniziato ad inciderlo in maniera tale da facilitami il successivo taglio.

Una volta raffreddato si può conservare in una scatola di latta per lungo tempo, anche se vista la bontà è difficile che vi rimanga così tanto! Io comunque, visto che appiccica parecchio, prima l’ho impacchettato in carta forno, così….

Riporto questo bellissimo articolo relativo a San Nicolò, festeggiato da sempre nella mia città, terra di confine tra la cultura cattolica e quella ortodossa, da cui la festa del 6 dicembre tanto attesa dai bambini.

SAN NICOLO’

La Leggenda di San Nicolò:

San Nicolò è uno dei Santi più venerati nel mondo e la sua fama è universale. Particolarmente sentito è a Trieste il culto del Santo protettore dei bambini che il 6 dicembre di ogni anno porta dei doni ai bambini buoni e carbone a quelli più discoli.

Nicola nacque in Medio Oriente presumibilmente nella città di Patana nella regione della Licia (attualmente in Turchia) attorno all’anno 270 d.C. da una famiglia nobile molto ricca. Rimase orfano molto presto ed usò le proprie ricchezze per aiutare i più poveri. Divenne sacerdote nella città di Myra, sempre nella regione della Licia, dove in seguito ne fu il Vescovo. Grandissime sono le doti ed i miracoli attributi a questo religioso ancora in vita, dalla resurrezione di tre bambini uccisi da un oste all’aver scongiurato una carestia nella città, dall’aver calmato una tempesta in mare all’aver salvato dalla pena di morte tre ufficiali condannati ingiustamente. Moltissimi altri miracoli gli sono inoltre attribuiti dopo la sua morte ma la leggenda di San Nicolò narra anche di un padre, nobile decaduto, costretto a mandare alla prostituzione le sue tre figlie non potendo offrire loro la possibilità di un matrimonio decoroso, al quale Nicola gettò dentro la finestra tre sacchetti pieni di monete, una ogni notte per tre notti di seguito; nell’iconografia del Santo troviamo infatti, oltre alla mitra ed al bastone pastorale, anche tre sacchetti o tre palle d’oro. Per tutto questo e molto altro ancora, San Nicola è oggi il Santo Protettore dei bambini, delle ragazze nubili, degli scolari, dei marinai, dei farmacisti, degli avvocati, profumieri, bottai, mercanti, pescatori e delle vittime di errori giudiziari.

In vita fu perseguitato da Diocleziano ma fu liberato da Costantino e sembra sia stato uno dei 318 partecipanti al Primo Concilio di Nicea del 325 voluto dall’Imperatore Costantino per sedare i conflitti interni della Chiesa. Morì a Myra il 6 dicembre di un anno non ben definito (presumibilmente nel 343). Il 9 maggio del 1087, 62 marinai partiti da Bari, trafugarono le spoglie del Santo dalla città di Myra conquistata dai Mussulmani e le portarono nella città pugliese. Alcuni anni dopo la Serenissima riuscì a trafugare altre ossa del Santo rinvenute nella zona del suo primo sepolcro a Myra e le depositarono nella chiesa di San Nicolò sul Porto del Lido.

San Nicola è quindi il patrono di Bari e si festeggia sia il 6 dicembre che il 9 maggio. Nelle zone di Trieste, Gorizia, basso Friuli, Istria e Alto Adige (zone ex Imprero Austro-Ungarico), permane il culto di San Nicolò che porta, doni, mandarini e dolci ai bambini al loro risveglio il 6 di dicembre.

Dal culto di San Nicola nasce quello di Santa Klaus (ossia Saint Nikolaus) o semplicemente Babbo Natale, che viene festeggiato tradizionalmente il giorno di Natale.

San Nicola da Myra, San Nicola di Bari, San Nicola Magno, Santa Klaus, San Niccolò, sono tutti i nomi con il quale si identifica uno dei Santi più popolari del mondo e sicuramente uno dei più amati a Trieste dove, come dialetto vuole, viene chiamato San Nicolò con un “c” sola.

La filastrocca di San Nicolò

San Nicolò de Bari

la festa dei scolari

se i scolari no fa festa

ghe taieremo la testa!

   
Conserve

Succo e polpa di mela

Ci sono quelle giornate strane, grigie, fredde, piene di bora e di fascino, in cui la luce è poca, ma è quella giusta, in cui hai la giornata sconclusionata e non porti a termine un lavoro: lunedì scorso la mia giornata è entrata a far parte di questa categoria già dal mattino quando mio marito è andato al lavoro nonostante per lui fosse giorno di riposo, inguaiando l’esistenza a me. Avevo promesso a mio figlio di accompagnarlo al ricreatorio con un amichetto, dove non sempre va volentieri, ma che gli dà il diritto, se frequentato con un minimo di regolarità, di accedere ai servizi estivi, quindi, tra un compito ed una lezione da studiare, lunedì ce l’ho fatta ad incastrare il tutto; depositati gli “gnomi” ho approfittato per portare Bubu a fare una corsa in riva al mare, non avevo la macchina fotografica con me… errore imperdonabile perchè la luce era qualcosa di divino e la superficie del mare era piatta ma mossa dal vento che creava degli arabeschi in controluce… una cosa stupenda, ma non mi sono arresa e, nonostante il cane tirasse come un trattore, mi sono armata di cellulare e ho scattato in continuazione, prendendomi tutti gli attimi di luce che rimanevano prima che il sole si tuffasse nel mare! Sono rincasata infreddolita e soddisfatta, sono sempre soddisfatta quando rincaso con delle belle foto, mi sento euforica e ritorno a godermi la luce più bella negli scatti fatti, quelli più casuali e che alla fine sono quelli che riescono meglio.

Appagata da questo stato di grazia ho iniziato a tagliare un chilo di mele, a sbucciarle pazientemente (non buttate le bucce nè i torsoli, metteteli in un sacchetto e surgelateli, tra qualche giorno ve ne spiegherò il motivo) e a tuffarle in una zuppiera in cui avevo già versato un litro d’acqua nel quale avevo spremuto un limone, per non farle annerire.

Ultimata l’operazione ho versato le mele a pezzettini in una pentola, ho filtrato il litro d’acqua acidulata per unirlo alle mele ed aggiunto 400 gr. di zucchero semolato, ho lasciato a sobbollire mezzora e poi ho frullato finemente tutto con il frullatore ad immersione; il succo l’ho conservato nelle bottiglie della salsa, lavate e sterilizzate, con lo stesso procedimento utilizzato per la marmellata: ho provato ad aprire una delle bottiglie e nello svitare la capsula ha fatto un “plop” perfetto, segno che il sistema di conservazione è affidabilissimo…. e nemmeno vi descrivo il sapore, ora che ho imparato a farlo non acquisto più i succhi di frutta industriali, con la certezza che questo il male allo stomaco non me lo fa venire sicuramente!

Riepilogo degli ingredienti:

1 kg. di mele (la qualità è irrilevante)

1 limone

1 l. di acqua

400 gr. di zucchero

Conserve

La leggenda del granchio e la scimmia e la mia confettura di cachi

Gironzolando sul web per farmi una cultura in merito a questo frutto così deliziosamente invernale, dolce, nutriente e che mi riporta all’infanzia, ho scoperto questa bellissima leggenda, che riporto tale e quale e che ho tratto da “Il Bazar di Mari”, sito dove poter leggere una gran quantità di bellissime leggende orientali.

LA BATTAGLIA TRA LA SCIMMIA E IL GRANCHIO

Molto tempo fa in Giappone, in un luminoso giorno d’autunno, una scimmia e un granchio stavano giocando insieme sulla riva di un fiume. Mentre correvano, il granchio trovò un o-nigiri [polpettina di riso] e la scimmia un seme di cachi.
Il granchio raccolse la polpettina di riso e la mostrò alla scimmia dicendo:
«Guarda che bella cosa ho trovato!»
Allora la scimmia sollevò il suo seme di cachi e disse:
«Anch’io ho trovato una bella cosa! Guarda!»
Ora, sebbene la scimmia avesse sempre avuto un debole per i cachi, non sapeva che farsene del seme che aveva appena trovato. Il seme di cachi è immangiabile e duro come una pietra. Perciò, essendo di natura ingorda, invidiò molto la bella polpettina di riso del granchio e propose uno scambio. Il granchio non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto rinunciare al suo trofeo per un seme duro come la pietra e non accettò la proposta della scimmia.
Allora l’astuta scimmia cominciò a convincere il granchio, dicendo:
«Sei poco saggio a non pensare al futuro. La tua polpettina di riso si può mangiare subito ed è certamente molto più grossa del mio seme. Ma se pianti questo seme nella terra, presto comincerà a crescere e in pochi anni diventerà un grande albero e produrrà in abbondanza dei bei cachi maturi un anno dopo l’altro. Prova solo a immaginarti quei bei frutti succosi che pendono dai suoi rami! Ma naturalmente tu non mi credi, e così lo seminerò da solo, anche se sono sicuro che un giorno ti dispiacerà moltissimo non aver seguito il mio consiglio».
Il granchio, che aveva un animo semplice, non riuscì a resistere all’abile opera di convincimento della scimmia. Alla fine acconsentì alla proposta, e lo scambio fu fatto. La furba scimmia divorò subito la polpettina e diede con molta riluttanza il seme di cachi al granchio. Le sarebbe piaciuto tenersi anche quello, ma temeva che il granchio si sarebbe arrabbiato e l’avrebbe pizzicata con le sue chele come forbici. Poi si accomiatarono. La scimmia tornò al suo albero nella foresta e il granchio agli scogli sulla riva del fiume. Non appena il granchio arrivò a casa, piantò nella terra il seme di cachi come gli aveva detto la scimmia.
La primavera seguente il granchio si rallegrò nel vedere il germoglio di un giovane albero che usciva dalla terra. Ogni anno cresceva sempre più, finché una primavera fiorì e l’autunno seguente produsse dei cachi belli grossi. I frutti pendevano tra le foglie lisce e larghe come sfere dorate e man mano che maturavano diventavano di un bell’arancione scuro. Per il piccolo granchio era un piacere uscire ogni giorno, sedersi al sole, sporgere i lunghi occhi come una lumaca sporge le corna e stare a guardare i cachi che maturavano alla perfezione.
«Dev’essere semplicemente delizioso mangiarli», diceva tra sé.
Un giorno vide che i cachi erano abbastanza maturi ed ebbe voglia di assaggiarne uno. Fece molti tentativi per arrampicarsi sull’albero, nella vana speranza di raggiungere uno di quei bei cachi che pendevano sopra di lui, ma non ci riuscì, perché le zampe del granchio non sono fatte per arrampicarsi sugli alberi, ma solo per correre sulla terra e sugli scogli, due cose che sa fare con molta abilità. In questa imbarazzante situazione gli venne in mente la sua vecchia compagna di giochi, la scimmia, che sapeva essere in grado di arrampicarsi sugli alberi meglio di chiunque altro al mondo. Decise di chiedere alla scimmia di aiutarlo e si avviò per cercarla.
Muovendosi alla maniera dei granchi sulla riva ghiaiosa del fiume, imboccò il sentiero del bosco ombroso e infine trovò la scimmia che schiacciava il pisolino pomeridiano sul suo pino preferito, con la coda strettamente arrotolata a un ramo per evitare di cadere durante il sonno. Ma si svegliò subito quando si sentì chiamare e ascoltò con impazienza quello che le diceva il granchio. Quando seppe che il seme che tempo prima aveva dato in cambio di una polpettina di riso era cresciuto fino a diventare un albero carico di buoni frutti, fu molto soddisfatta, perché aveva subito pensato a un piano astuto che le avrebbe permesso di avere tutti i cachi per sé.
Accettò di andare insieme al granchio per raccogliere i frutti al posto suo. Quando furono sul posto, la scimmia rimase sbalordita nel vedere com’era bello l’albero che era nato dal seme e di quanti frutti maturi erano carichi i rami.
Si arrampicò velocemente sull’albero e cominciò a raccogliere e mangiare più in fretta che poteva un cachi dopo l’altro. Ogni volta sceglieva il migliore e il più maturo che riusciva a trovare e ne mangiò fino a non poterne più. Non ne diede nessuno al povero granchio affamato che aspettava ai piedi dell’albero e quando ebbe finito, non erano rimasti che pochi frutti, tutti duri e acerbi.

La scimmia uccide il granchio

Potete immaginare come si sentì il povero granchio dopo aver aspettato pazientemente per tanto tempo che l’albero crescesse e i frutti maturassero, quando vide la scimmia divorare tutti quei buoni cachi. Era così contrariato che girava tutto attorno all’albero esortando la scimmia a mantenere la promessa. In un primo momento la scimmia non fece caso alle proteste del granchio, ma poi raccolse i cachi più verdi e più duri che riuscì a trovare e li tirò in testa al granchio. I cachi, quando sono acerbi, sono duri come pietre. I proiettili della scimmia raggiunsero il bersaglio, e il granchio fu ferito gravemente dai colpi. Senza interruzione e alla stessa velocità con cui riusciva ad afferrarli, la scimmia staccava i duri cachi e li gettava sul granchio indifeso, finché cadde morto con il corpo coperto di ferite. Rimase lì, offrendo una vista pietosa, ai piedi dell’albero che aveva piantato lui stesso.
Quando la scimmia malvagia vide che aveva ucciso il granchio, scappò via da quel luogo più in fretta che poteva, piena di paura e tremante, da quella codarda che era.
Ora il granchio aveva un figlio che stava giocando con un amico non lontano dal luogo in cui era avvenuto il fattaccio. Sulla strada di casa trovò il padre morto in uno stato spaventoso: aveva la testa fracassata e il guscio frantumato in più punti, e intorno al corpo erano sparsi i cachi acerbi che erano stati causa della morte. A questa vista orribile il povero giovane granchio sedette e pianse.
Ma dopo aver pianto per un po’, disse fra sé che tutto quel piangere non avrebbe fatto niente di buono. Il suo dovere era quello di vendicare l’assassinio del padre, ed era questo ciò che voleva fare. Si guardò intorno alla ricerca di qualche indizio che lo portasse a scoprire l’assassino. Osservando l’albero notò che i frutti migliori non c’erano più e che in terra era sparsa una gran quantità di bucce e di semi, oltre ai cachi acerbi che evidentemente erano stati tirati a suo padre. Allora capì che l’assassino era la scimmia, perché adesso rammentava che suo padre una volta gli aveva raccontato la storia della polpettina di riso e del seme di cachi. Il giovane granchio sapeva che alle scimmie i cachi piacciono più di qualunque altro frutto e fu certo che la golosità per quei frutti era stata, ahimè !, la causa della morte del vecchio granchio.
Il suo primo pensiero fu di andare subito ad assalire la scimmia, perché ribolliva di rabbia. Ma poi la ragione gli disse che sarebbe stato inutile, perché la scimmia era un animale vecchio e astuto e sarebbe stato duro sopraffarla. Doveva contrapporre l’astuzia all’astuzia e così chiese agli amici di aiutarlo, perché sapeva che sarebbe stato superiore alle sue forze ucciderla da solo.
Il giovane granchio andò subito a chiamare il mortaio, vecchio amico del padre, e gli raccontò ciò che era accaduto. Implorò tra le lacrime il mortaio di vendicare la morte del padre. Il mortaio fu estremamente dispiaciuto quando udì il doloroso racconto e promise subito al giovane granchio che l’avrebbe aiutato a punire la scimmia con la morte. Gli raccomandò di essere molto cauto in ciò che faceva, perché la scimmia era un nemico forte e astuto. Poi mandò a cercare l’ape e la castagna, anch’essi vecchi amici del granchio, per tenere consiglio insieme a loro sulla faccenda. Poco dopo i due arrivarono. Quando furono informati su tutti i particolari della morte del vecchio granchio e sulla cattiveria e ingordigia della scimmia, acconsentirono volentieri ad aiutare il giovane granchio nella sua vendetta.
Dopo aver discusso a lungo sul modo e i mezzi per realizzare i loro progetti, si separarono, e il signor Mortaio andò a casa del giovane granchio per aiutarlo a seppellire il suo povero padre.
Mentre accadeva questo, la scimmia si complimentava con sé stessa per aver fatto tutto in modo così accurato. Secondo lei era una bella cosa aver rubato al suo amico tutti i cachi maturi e poi averlo ucciso. Ma anche così non riusciva a dimenticare la paura delle conseguenze se i suoi misfatti fossero stati scoperti. Se la famiglia del granchio lo avesse saputo (ma pensava che non fosse possibile, perché era fuggita senza che nessuno la vedesse), l’avrebbe odiata e avrebbe voluto vendicarsi di lei. Così decise di non farsi vedere e rimase in casa per qualche giorno. Però trovava che quella vita era molto noiosa, abituata com’era alla vita libera tra gli alberi, e alla fine disse:

Mortaio colpisce la Scimmia

«Nessuno sa che ho ucciso il granchio. Sono sicura che è morto prima che me ne andassi. I granchi morti non parlano. Chi può dire che l’ho ammazzato io? Dal momento che nessuno sa niente, a che pro chiudermi in casa e stare tanto a pensarci su? Ormai quello che è fatto è fatto».
Ciò detto uscì, si diresse verso il territorio dei granchi, si avvicinò alla chetichella il più possibile alla casa del granchio e cercò di ascoltare i discorsi del vicinato. Voleva scoprire cosa stavano dicendo i granchi sulla morte del loro capo, poiché il vecchio granchio era stato il capo tribù.
Ma non riusciva a sentire niente e disse tra sé:
“Sono tanto incoscienti da non sapere che il loro capo è morto o da non preoccuparsi di sapere chi lo ha ucciso?”.
Non si rendeva minimamente conto, nella sua cosiddetta ‘saggezza scimmiesca’, che ciò che le sembrava indifferenza faceva parte del piano del giovane granchio. Di proposito faceva finta di non sapere chi aveva ucciso suo padre e di credere che fosse morto per colpa di un’imprudenza. In questo modo avrebbe mantenuto meglio il segreto sulla vendetta che stava meditando contro la scimmia.
La scimmia tornò dunque a casa piuttosto soddisfatta, pensando che ormai non aveva più nulla da temere.
Un bel giorno, mentre se ne stava seduta davanti a casa, vide arrivare all’improvviso un messaggero da parte del giovane granchio. Mentre ancora si stava chiedendo che volesse dire tutto ciò, il messaggero s’inchinò davanti a lei e disse:
«Sono stato mandato dal mio padrone per comunicarti che suo padre è morto qualche giorno fa cadendo da un albero di cachi mentre cercava di arrampicarsi per raccoglierne i frutti. Dal momento che questo è il settimo giorno, è il primo anniversario della sua morte, e il mio padrone ha preparato una piccola festa in onore del padre e t’invita a prendervi parte, in quanto eravate ottimi amici. Il mio padrone spera che onorerai la sua casa con la tua cortese visita».
Quando la scimmia udì queste parole, si rallegrò nel profondo del cuore, perché ormai tutte le sue paure di essere sospettata erano finite. Non poteva assolutamente immaginare che era appena stato messo in atto un complotto contro di lei. Si finse molto sorpresa alla notizia della morte del granchio e disse:
«Mi dispiace veramente molto di sentire che il vostro capo è morto. Come sai, eravamo grandi amici. Mi ricordo che una volta abbiamo scambiato fra noi una polpettina di riso e un seme di cachi. Mi addolora molto pensare che quel seme sia diventato la causa della sua morte. Accetto il tuo cortese invito con i più grandi ringraziamenti. Sarà un piacere per me onorare il mio povero vecchio amico». E fece uscire dagli occhi un po’ di lacrime false.
Il messaggero rise dentro di sé e pensò: “Adesso questa perfida scimmia piange lacrime false, ma tra poco ne verserà di vere”. Poi ad alta voce ringraziò educatamente la scimmia e tornò a casa.
Quando se ne fu andato, la scimmia malvagia rise forte pensando all’ingenuità del giovane granchio e senza il minimo sospetto cominciò ad aspettare con ansia la festa del giorno successivo in onore del granchio morto a cui era stata invitata. Si cambiò d’abito e si accinse solennemente a recarsi dal giovane granchio.
Trovò tutti i membri della famiglia del granchio e i loro parenti ad aspettarla per darle il benvenuto. Dopo gli inchini di rito, la condussero in una sala. Qui giunta, fu accolta dal giovane granchio vestito a lutto. Si scambiarono frasi di condoglianze e di ringraziamento, quindi cominciò una sontuosa festa in cui la scimmia era l’ospite d’onore.
Al termine della festa, fu invitata a bere una tazza da tè nella sala della cerimonia del tè. Appena il giovane granchio ebbe accompagnato la scimmia nella sala del tè, si allontanò e la lasciò sola. Trascorse un bel po’ di tempo, e il granchio ancora non ritornava. La scimmia diventava impaziente e diceva tra sé:
“Questa cerimonia del tè va veramente a rilento. Sono stanca di tutta questa attesa. Ho molta sete dopo tutto quel sakè che ho bevuto a pranzo”.
Allora si avvicinò al focolare e cominciò a versare un po’ di acqua calda dal bollitore. Quand’ecco che qualcosa irruppe dalla cenere con un grande schiocco e raggiunse al collo la scimmia. Era la castagna, uno degli amici del granchio, che si era nascosta nel focolare. La scimmia, presa di sorpresa, fece un salto all’indietro e cercò di scappare fuori della sala.
Allora l’ape, che si era nascosta dietro il paravento, volò fuori e la punse sulle guance. La scimmia soffriva molto: aveva il collo bruciacchiato dalla castagna e la faccia tutta punzecchiata dall’ape, e corse fuori urlando e strepitando di rabbia.
Ed ecco che il mortaio di pietra, che si era nascosto in mezzo alle pietre in cima al cancello del granchio, le cadde sulla testa insieme a tutte le altre pietre appena passò sotto di lui. Era forse possibile per la scimmia reggere al peso del mortaio che le cadeva in testa dalla cima del cancello? Giacque schiacciata, del tutto incapace di alzarsi. Mentre era a terra indifesa, si avvicinò il giovane granchio e tenendo le sue grandi chele sulla scimmia, disse:
«Ti ricordi quando hai ucciso mio padre?»
«Allora… mi sei… nemico?» disse la scimmia boccheggiando.
«Certo», disse il giovane granchio.
«Era… tuo padre… non… il mio…», replicò la scimmia per nulla pentita.
«Hai ancora il coraggio di mentire? Allora muori!» e detto questo, con le chele tagliò la testa alla scimmia. E la scimmia malvagia ebbe la giusta punizione, mentre il giovane granchio vendicò la morte del padre.
Qui finisce la storia della scimmia, del granchio e del seme di cachi.

FINE

Immagine provenienti dal sito: http://durendal.org

Dopo questa lunga, ma bellissima lettura di una fiaba antica, passo alla ricetta di questa deliziosa confettura che ho preparato vista l’enorme quantità di cachi ricevuti in dono da un collega di mio marito che se ne trova un paio di alberi in giardino, ma non apprezzandone i frutti finisce col lasciarli cadere e ritrovarsi il terreno imbrattato ad appiccicoso.

Gli ingredienti sono i seguenti:

1200 gr. di cachi maturi

1 mela

400 gr. di zucchero

4 cucchiaini di cannella in polvere

1 limone

1 bicchierino di rhum

La preparazione è semplicissima poichè è sufficiente tagllare, togliendo i semi, i cachi a pezzettini (ho lasciato anche la buccia, perchè buttarla?), aggiungendovi poi anche la mela tagliata a cubetti e anch’essa completa di buccia; appena la frutta arriva a bollore si versano nella pentola lo zucchero e la cannella e si lascia a sobbollire per un’ora. A questo punto si frulla bene con il minipimer e solo al momento di spegnere il fuoco si aggiunge il rhum; la confettura è pronta per essere invasata nei vasetti precedentemente sterilizzati, si chiude, si capovolge e alla fine si etichetta…. magari con qualcosa di carino e sfizioso se volete farne dei regalini!

Le mie confezioni questa volta sono molto spartane poichè destinate ad un uso pressochè immediato, ma mi sto attivando per le marmellatine natalizie…

Ah, nel mentre leggevo la leggenda del granchio e la scimmia ascoltavo il brano di questo video…mi ha donato un’atmosfera molto particolare, quindi lo condivido con voi che avete avuto la pazienza di arrivare sino alla fine del post (sempre logorroica… ma amo fare le cose bene e una semplice confettura, per vostra sfortuna, non era sufficiente….).

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Microonde/ Ricette vegetariane

Topinambur velocissimi al microonde

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Ricette di questo tipo nascono nei ricordi di me bambina che correva tra i campi coltivati dai nonni, che aveva paura delle galline della nonna (sì, erano proprio proprietà della nonna, che acquistava i pulcini e poi le cresceva… sotto lo sguardo truce del nonno che le aveva in antipatia), che non capiva perchè non venissero mai seminati i fiori, ma i fiori non servivano al sostentamento della famiglia, mica si mangiano i fiori… anche se io avrei da ridire qualcosa in merito, ma con il senno di poi ragiono in maniera diversa.

Queste ricette nascono dalla mia attuale ricerca di ciò che era e non è più, di quando, sino a due anni fa, andavo a passeggio dietro casa mia con la piccola Yoghi e, nel mentre la piccoletta pascolava e annusava tutti gli angolini, io raccoglievo la malva, il finocchietto selvatico, la melissa, la menta, le gemme di luppolo e tutto ciò che trovavo.

Tutto ciò non c’è più, un giorno sono venute le ruspe e hanno deciso di darla vinta al cemento, ancora una volta, perchè non hanno capito niente… e hanno iniziato a disboscare per realizzare un parcheggio esteticamente ineccepibile in cui ci stanno dieci automobili dove prima ce ne stavano trenta… l’intelligenza umana è anche questa!

Ricordo lo sguardo del signor Fiore, un dolce vecchietto che viveva nelle case popolari, ma che amava la terra più di se stesso, tanto da realizzare un piccolo paradiso in poca terra brulla… era bello il giardinetto del signor Fiore, tant’è che lo rammento guardare le ruspe con le lacrime agli occhi, mentre veniva divelto anche il piccolo albero di fico, quello che tanto faticosamente era riuscito ad impiantare, retto con amore da alcuni bastoncini di legno intagliati dalle mani di questo vecchietto eccezionale.

Il bosco davanti casa c’è ancora, la Yoghi se n’è andata portandomi la dolce Bubu a risanarmi il cuore lacerato dalla sua perdita, il signor Fiore non l’ho più incontrato perchè non ho il coraggio di passeggiare in un parcheggio di cemento e ricordare lo scempio che c’è stato, ma le ricette che utilizzano i prodotti della terra, quelli più semplici ed economici, riuscendo a trasformarli in qualcosa di speciale, come sempre sa fare Libera, mi affascinano e mi fanno rammaricare di non poter avere un orticello tutto mio.

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Qualche giorno fa, gironzolando tra le scaffalature del supermercato sotto casa, nel banco frigo li ho visti… nemmeno il mio organizzatissimo fruttivendolo di fiducia li ha mai…. i topinambur!!!

Memore del fatto che la mia amica Libera nel suo blog avesse proposto svariate proposte con questo semisconosciuto ingrediente, li ho acquistati senza indugio e ho provato immediatamente questa ricetta, che ripropongo con pochissime varianti e che ho portato a termine in pochi minuti.

Ho pelato ed affettato 500 gr. di topinambur e una cipolla rossa, che sono stati poi adagiati in una terrina in coccio ben oleata e successivamente posti nel forno a microoonde per 4 minuti e alla massima potenza; nel frattempo ho sbattuto 3 uova con poco sale, due generose cucchiate di parmigiano, due cucchiaiate tra basilico, origano e prezzemolo e circa 3 cucchiate di latte di riso; solo alla fine ho aggiunto un vasetto di pisellini sgocciolati e mescolato il tutto.

Nel frattempo ho estratto dal forno la terrina e ho versato anche l’impasto a base di uova, mescolando bene e rimettendo nel forno per altri 12 minuti, sempre alla massima potenza: Libera nella sua versione era riuscita a ridurre la cottura a 4 minuti, ma innanzitutto lei aveva usato del burro anzichè l’olio (che aumenta la conduzione di calore) e certamente aveva affettato i tuberi con più cura rispetto a me (in effetti i miei erano un po’ spessi).

Solo alla fine ho inserito il grill per 2 minuti in maniera tale da migliorare l’estetica di questo sformatino delizioso: il topinambur è un tubero strano, di colore violaceo e bitorzoluto, che cresce spontaneo vicino ai fossati donando dei bei fiori gialli che mai farebbero pensare alla loro natura infestante e assolutamente predominante sulle altre specie vegetali… eppure, una volta cotto, sprigiona un sapore intenso di cuore di carciofo, se mangiato crudo e condito con sale e olio è delicatissimo e se ne può ricavare anche un’ottima farina priva di glutine. Insomma,un prodotto ottimo e a buon prezzo, sicuramente da rivalutare!

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Riepilogo degli ingredienti:

500 gr. di topinambur

1 cipolla rossa

3 uova

2 cucchiai di parmigiano

2 cucchiai tra basilico, origano e prezzemolo

3 cucchiai di latte di riso

sale q.b.

olio evo per ungere la teglia

Bubu, la mia compagna di passeggiate.

Un po' del mio mondo

La leggenda di San Martino

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“San Martino e il mendicante” di Giotto (tratto dal web)

Martino era un ubriacone, perennemente con il bicchiere in mano, ma, nel corso di una serata d’inverno in cui aveva nevicato, nel mentre rientrava in casa, ubriaco fradicio come sempre, Martino, pur desiderando accoccolarsi nel calore del corpo della moglie, si fece degli scrupoli in quanto ella era in attesa di un bimbo e non voleva crearle delle preoccupazioni rincasando sotto l’effetto dei fumi dell’alcool.
Decise quindi di coricarsi in cantina, accovacciandosi in una nicchia scavata all’interno del muro, proprio dentro una gande botte: sfortuna volle che morì assiderato la notte stessa.
Nel momento in cui la sua anima giunse davanti a Dio, questi ne riconobbe la bontà dallo scrupolo usato nei confronti della moglie e che gli causò la morte, il che gli valse la decisione di farlo santo.
La moglie lo attese invano in quanto non ebbe più alcuna notizia del marito, ma dal momento della sua scomparsa dalla botte in cui la vita lo abbandonò iniziò a sgorgare del vino, come se non vi fosse un fondo a decretarne l’esaurimento.
Ben presto la notizia si propagò, attirando l’attenzione dei paesani e del prete, il quale, volendo accertarsi della verità, si accinse ad esaminare la botte in ogni piccolo particolare: ritrovò il corpo del santo all’interno della nicchia e, guardando all’interno della botte, si rese conto che al suo interno era spuntata una vite, che a sua volta aveva generato l’uva e che questa produceva il vino senza intervento alcuno.
Ecco perché San Martino è il patrono del vino.

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La festa di San Martino allieta la mia terra con il rosso del sommaco, scalda i cuori con il profumo delle caldarroste e dei ciocchi al fuoco, rende il Carso degno della tavolozza di un maestro della pittura, allieta con le feste paesane e i calici di vino… ecco un assaggio di colore che la natura ci dona in questo bellissimo periodo!

Dolci e desserts

Frittelle di zucca profumate all’arancio

Lo so…Halloween è passato e io vi propongo queste frittelline a base di zucca?

Sì, lo faccio ora perchè comunque la zucca appartiene all’autunno e da quest’anno l’autunno mi piace, mi piace un sacco… non lo so il perchè, ho sempre detestato i suoi colori, quelli che tutti mi dipingevano come fossero caratterizzanti un dipinto dalle mille sfumature, un quadro ancora più intenso se creato osservando il nostro Carso, acceso di sommaco infuocato… che però a me, sino ad un anno fa, ha sempre messo una tristezza infinita.

Quest’anno ne sento non solo il fascino e la poesia, ma il calore, il tepore della mia famiglia, di quella alla quale ho anelato per anni, che ho fortissimamente voluto, ma che ho sentita distante per un periodo per me troppo lungo, che mi ha forse concesso un grande spazio ristretto, ossimoro che suona strano, ma che aderisce perfettamente alla realtà.

Mi sono persa, inguaiata nei miei affanni, nelle mie angosce irrisolte, mentre tutti mi aspettavano con amore e infinita pazienza, standomi accanto senza chiedere, lasciandomi perdere se non era la giornata giusta… poi ho visto un bimbo che cresceva, che correva troppo in fretta e dentro di me ho sentito un vuoto, ho cercato di stringere tra le mie braccia ciò che rimane ancora della sua pochissima infanzia,  cercando di donare tutto il mio tempo a questo bel biondino che ha chiesto una festicciola di Halloween come ai tempi della scuola materna, ma che poi ha lasciato immacolata la merenda per correre in giro per il quartiere con gli amici, suonando a tutti i campanelli per ragranellare qualche dolcetto, in perfetta armonia con i suoi undici anni e la sua fame di scoprire il mondo da solo…

E’ dolce il mio bimbo, che ritorna arrabbiato dalla scuola e si affanna sui libri, maltrattandomi quando non ce la fa, ma che subito dopo mi chiama e mi dice: “Mamminaaa…abbraccino…..” e io mi sciolgo sempre di più….

Sono una mamma strana io, cresciuta con lui, imbranata e immatura, ancora mi chiedo com’è che sono riuscita a metterlo al mondo e, soprattutto, a crescerlo tanto bene, educato e di sani principi, umorale come me, ma tanto tenero.

Al mio bimbo piacciono i dolcetti e adora le frittelline, poi fatica a giocare a basket perchè ha il pancino rotondo, ma ogni tanto qualche merenda coccolosa fa bene al cuore e il pancino può perdonarmela…. ecco le frittelline che ho preparato al mio cucciolo!

Ho tagliato a cubetti 500 gr. di polpa di zucca e l’ho cotta al vapore per quindici minuti, in maniera tale da schiacciarla agevolmente con i rebbi di una forchetta, poi ho versato la polpa ottenuta nel mixer, insieme a 300 gr. di farina e 10 cucchiaiate di zucchero (sì, misurato a cucchiaiate, così ho potuto assaggiare trovando il giusto equilibrio con il sapore della zucca),  un pizzico di sale,  due cucchiaiate di scorzetta di arancia che avevo essiccato e tritato l’inverno scorso e che a breve posterò, ma andrà benissimo la scorza grattugiata di un’arancia fresca, un pizzico di lievito per dolci o bicarbonato di sodio e fate andare le pale sino ad ottenere un impasto semifluido ed appiccicoso.

Nel frattempo avrete riscaldato a sufficienza una padella piena d’olio in cui versare l’impasto a cucchiate: in pochi minuti le frittelline saranno pronte! Potete spolverizzarle con dello zucchero a velo o mangiarvele così, comunque sia sono squisite e molto particolari!

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Primi

Jota

Questo è il piatto triestino per eccellenza, anche se in merito all’etimologia del nome abbia trovato, dopo molte ricerche, solo qualche ipotesia.  c’è chi sostiene derivi  dal tardo latino jutta, che sembra significhi “brodaglia” (ma io il latino non lo conosco), termine che, a sua volta, trarrebbe origine da una radice celtica, ipotesi tutt’altro che da trascurare visto che lo stesso significato di brodo o brodaglia (addirittura mangime) lo si ritrova nel termine cimbro yot, nell’irlandese it e nel gergo del Poitou jut, mentre in Cecoslovacchia con il termine jucba s’intende una minestra di cavoli.

Ma al di là di questioni meramente etimologiche rimane una zuppa che io adoro, che riscalda moltissimo e che non stanca mai, grazie al suo sapore acidulo, donati dalla presenza di crauti acidi che fanno da padroni nella lista degli ingredienti.

Chi vive al nord non dovrebbe avere eccessiva difficoltà nel reperirli in quanto vi sono alcune ditte del Sudtirolo e della mia zona che li smercia inscatolati, mentre nella mia città si trovano sfusi presso qualsiasi ortofrutticolo: si possono produrre da sè, ma i tempi sono lunghi, molto lunghi, e ci vuole un bel po’ di esperienza.

Si tratta di una zuppa antica, che andrebbe cotta a fuoco lento nel classico coccio, ma visti i ritmi devastanti della vita moderna qui posto la classica ricetta con la pentola a pressione: mettete i crauti (1 vasetto o a piacere) nella pentola assieme a 2 o 3 patate, a seconda della loro grandezza, pelate e, a propria scelta, intere (in tal caso le schiaccerete dopo la cottura con i rebbi di una forchetta) oppure a dadini, se preferite ritrovarvele nel piatto; qualche scarto di maiale (una cotica è perfetta, non si butta nulla), fate andare la cottura per trenta minuti dal sibilo e poi passate alla seconda fase.

Premetto che se utilizzerete dei fagioli essiccati e ammollati in precedenza, li dovrete inserire insieme ai crauti e alle patate già all’inizio della cottura, se invece utilizzate quelli inscatolati potete versarli ora con tutto il liquido di vegetazione, insieme ad un soffritto di cipolla (fatele diventare quasi bruciacchiate, il sapore migliorerà di molto) ed olio, cui alla fine avrete aggiunto un cucchiaio di farina, un po’ di sale, di pepe e un dado; se avete del dado fatto in casa utilizzatelo, ovviamente! I fagioli da usare sono i borlotti, ma io stavolta l’ho fatta con i cannellini perchè in casa non c’era altro: è risultata più delicata, ma buonissima!

A questo punto saranno sufficienti altri dieci minuti di cottura per avere una zuppa fumante e profumatissima: preparatene pure in grande quantità poichè il giorno seguente sarà ancora più buona, come tutte le preparazioni a base di crauti acidi!

Se ne avete la possibilità accompagnate il piatto con una buona Weissbier, possibilmente Hefe, cioè non filtrata: con i crauti è d’obbligo!

Riepilogo degli ingredienti:

una confezione di crauti acidi

2 o 3 patate (a seconda della loro grandezza)

una scatola di fagioli borlotti (oppure 3 manciate di fagioli secchi)

mezza cipolla, olio evo e un cucchiaio di farina

un dado (o un paio di cucchiaini di dado fatto in casa)

sale e pepe q.b.

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Vi lascio uno scatto della mia città, un gioiellino incastonato tra mare e monti, terra di mare, ma intrisa di cultura austroungarica, nella mentalità dei nativi come nella cucina, dove si mangia un pesce delizioso, ma dove si vive di crauti in perfetta sintonia con la cultura tedesca: una città che è una contraddizione proprio perchè da qui nel corso della storia ci sono passati  tutti, terra di confine e in preda a conflitti politici ed ideologici perenni, ma ferma nel proprio essere “triestina”.

Un soffio di mare a tutti….

Dolci e desserts

Crema di uova e mascarpone

Ho proprio voglia di casa, è finalmente sabato e ho voglia di casa, chiudendo la notte fuori dalla porta e godendomi il calore della famiglia, i momenti in cui mi siedo accanto a mio figlio e ripetiamo matematica in compagnia di un the caldo con i biscottini, oppure di quando me ne sto appollaiata sul divano con la mia dolce Bubu acciambellata sulle ginocchia.

E’ proprio voglia di caldo autunno, di quando la notte scende alle quattro del pomeriggio e senti che l’inverno si avvicina a grandi passi, di quando mi affaccio alla finestra e vedo il bosco nero, le goccioline di condensa sulle vetrate e trascorro le serate distesa sul parquet giocando con mio figlio.

E’ anche voglia di qualcosa di dolce, di qualcosa da preparare in pochi minuti e con la semplicità richiesta dalla collaborazione offertami da mio figlio, cuochino in erba ma al quale non si possono imporre procedimenti complessi.

Questa è la nostra cremina, realizzata montando a neve ferma un paio di albumi con un pizzico di sale e gonfiando i tuori con lo zucchero, quanto ne volete e del tipo che preferite, che sia bianco, di canna, muscovado….ciò che preferite. Alla fine unite il tuorlo ad una confezione di mascarpone e, facendo attenzione a non sgonfiare il composto, unite successivamente anche l’albume… lasciate questa delizia nel frigorifero un paio d’ore e poi, se l’idea vi piace, aggiungetevi la decorazione che preferite, quale della frutta, del cioccolato in scaglie o, come abbiamo fatto Federico ed io, dei marshmellows reduci dalla festina di Halloween!

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Vi lascio alle foto di questa delizia per il palato e di uno scatto “d’archivio”, ma che io adoro perchè mi accompagna verso l’inverno.

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