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Il profumo della lettura

Letture

“Domani, domani” di Francesca Giannone

“Da soli si può andare in giro. In due si va sempre da qualche parte”.

Kim Novak in “La donna che visse due volte (Vertigo)”, Alfred Hitchcock.

Dopo aver letto il criticatissimo “La portalettere”, della medesima autrice, che a me onestamente è piaciuto molto in quanto scorrevole, scritto bene, da evasione e assolutamente gradevole, mi sono accinta ad intraprendere anche questa seconda lettura, con qualche perplessità visto che ne hanno detto peste e corna e invece l’ho trovato bellissimo, anche meglio del romanzo precedente (non ricordo se ve ne ho parlato, in caso rimedierò quanto prima).

L’intera trama ruota intorno al saponificio di Araglie, una cittadina salentina, fondato nel 1920 dalla famiglia Rizzo e gestito con amore e passione dai due nipoti del fondatore, Lorenzo ed Agnese, nonostante la scarsa attitudine e il pochissimo se non nullo interesse da parte di Giuseppe, padre dei due ragazzi, tant’è che nello snodarsi degli eventi si comprenderà quale sia il motivo di tale indifferenza.

Questo tarlo che rode l’anima di Giuseppe lo porterà a prendere la decisione di svendere lo stabilimento alla concorrenza, generando una insanabile frattura all’interno della famiglia, con la frustrazione di Agnese e la rabbia di Lorenzo, pericolosamente condita da una incrollabile voglia di rivalsa che gli rovinerà l’esistenza.

Non procedo nella trama perchè sarebbe un peccato rovinarvi la lettura, tuttavia l’intero romanzo è condito dall’amore infinito di Agnese per la creazione dei suoi prodotti, dalle sue capacità chimiche e sperimentali, dalla poesia che ella mette nella produzione e dal costante profumo di talco che caratterizza le sue saponette, il tutto accompagnato dalle capacità grafiche di Lorenzo, che disegna le locandine pubblicitarie e le confezioni dei loro prodotti, con una maestria artigianale che ancora oggi, a dispetto della globalizzazione e dell’industrializzazione, risulta tanto affascinante.

Dal 1959, anno del cambio di rotta dello stabilimento, il romanzo vede un intrecciarsi di storie e di personaggi, di voglia di rivalsa, di rapporti lacerati e di riscatto ad ogni costo, sempre contestualizzato in una narrazione estremamente scorrevole ed accattivante, che porta il lettore a divorare un capitolo dopo l’altro, nell’attesa del “domani” e sempre in un’atmosfera permeata dal profumo del talco.

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“Tutto il blu del cielo” di Mélissa da Costa

Ho riscontrato quanto spesso questa lettura venisse consigliata nei vari gruppi di lettura cui sono iscritta e, nel momento in cui mi sono apprestata ad approfondirne la trama, mi sono resa conto di averlo nella mia libreria Kindle da molto tempo, probabilmente acquistato in occasione di qualche offerta.

Le prime parole che ci accolgono all’apertura del romanzo sono pressapoco le seguenti: “Cercasi compagno/a di viaggio per un’ultima avventura”, inserzione pubblicata online da Émile in una giornata di fine giugno, deciso ad intraprendere un viaggio on the road, sempre desiderato e mai realizzato, con l’urgenza di sapere vicina la propria fine a seguito della infausta diagnosi di Alzheimer precoce. All’appello risponde Joanne, silenziosa e strampalata aspirante compagna di viaggio, chiusa in se stessa e dalla dubbia apparenza di compatibilità con il solare ventiseienne autore dell’annuncio… eppure il viaggio ha inizio, nonostante i dubbi sul possibile rapporto con Joanne, a bordo di un piccolo camper che Émile ha acquistato e rinnovato senza comunicare alcunchè alla propria famiglia, rea di soffocarlo con eccessive attenzioni e alla quale nulla comunica al momento della partenza.

L’intero viaggio si snoda attraverso boschi, torrenti, sentieri e stradine che attraversano le vette dei Pirenei, attraversando piccoli borghi in Occitania, nel mentre i due compagni di viaggio lentamente e con delicatezza cercano un punto di incontro, una dimensione in cui potersi incontrare nonostante il reciproco dolore che li accompagna.

Si tratta di una storia di rinascita che narra la scoperta dell’altro, con delicatezza infinita, con piccoli passi pazienti verso il buio, un libro magico in cui nello svelare il dolore di Joanne nasce l’amore di Émile che, con infinita dolcezza e comprensione, riesce a guarirla e a donarle nuovamente il sorriso nonostante la morte incombente lo stia schiacciando avvicinandovisi sempre di più; Émile riesce a vivere quest’ultimo viaggio grazie alla miglior compagna avesse potuto sperare di incontrare, grazie alla sua profonda lealtà che lo accompagnerà per mano fino all’ultimo sorriso.

E’ bello, bellissimo, leggetelo…

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“I sorrisi non fanno rumore” di Enrica Tesio

I SORRISI NON FANNO RUMORE

Avevo già conosciuto questa scrittrice in passato leggendo “La verità, vi spiego, sull’amore”, apprezzatissimo grazie alla verve ironica che accompagna tutto il romanzo già a partire dalle prime pagine, quindi ho affrontato anche questo libro con l’assoluta certezza mi sarebbe piaciuto. Indubbiamente è molto diverso da quello precedentemente citato, più sofferto, tuttavia sempre narrato con l’ironia tipica della Tesio, anche se in questo caso più sfumata nella serietà di un tema intriso di sofferenza: il rapporto con la figlia.

La narrazione prende inizio da un evento tragicomico, quando Toni, scrittrice di libri destinati all’infanzia, esordisce pubblicamente con una frase atta a sconfessare in maniera radicale l’esistenza di Babbo Natale, dando origine ad una serie di eventi concatenati e lesivi della sua immagine, nonostante il sollievo provato nel mettere in chiaro questa indiscutibile verità. Purtroppo i bambini presenti all’evento la prendono molto a male e, ancor più, i genitori, sempre onnipresenti nel voler tutelare i figli contro qualsiasi dispiacere, anche esagerando, a parer mio, nel pretendere di evitare loro qualsiasi dolore, qualsiasi delusione, qualsiasi esperienza di vita che permetta loro di crescere, esattamente come avviene nell’attuale società, generatrice di figli inconcludenti e incapaci di affrontare anche la difficoltà più elementare.

La necessaria fuga cui Toni è costretta la mette dinanzi ad una serie di riflessioni sul proprio passato, dando quindi origine ad una storia che ruota continuamente tra il concetto di presenza e quello di assenza, facendo capire al lettore come la melodia sia proprio nelle sfumature tra le note dell’esistenza. L’assenza citata riguarda la perdita di persone che non sono più presenti nel suo mondo, per motivi diversi, mentre la presenza si identifica con l’immenso amore provato nei confronti della figlia, nonostante la gelosia che la attanaglia a causa del rapporto che essa ha costruito con la nuova giovane compagna del padre, solare e che affascina la ragazza. Tutto ciò in un momento in cui il caos prende il sopravvento, tra il dolore dei ricordi che ancora persistono e che non riesce ad allontanare e il disastro di una routine crollata improvvisamente.

Il nodo del romanzo è nella comprensione che l’unica felicità possibile risiede in ciò che ci possiamo permettere, nell’accettazione degli errori e nel godere di ciò che tale accettazione ci concede, raggiungendo quindi una felicità semplice fatta di sbagli, di tempo che passa, di piccole cose che però sono in grado di fare la differenza.

E’ un libro intimo, sincero, molto onesto nell’ammissione dei limiti della protagonista, è rappresentato da una prosa lieve e delicata, nonostante la feroce analisi emozionale che viene affrontata, è una storia che alla fine si può adattare a qualunque di noi… l’ho letto in pochissimi giorni, nonostante non tutti i capitoli siano leggeri, ma è un romanzo che può far riflettere se affrontato nella maniera corretta.

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“Tre gocce d’acqua” di Valentina d’Urbano

Come di consueto tra una partenza e l’altra vi propongo qualche lettura per trascorrere al meglio le attese in aeroporto ed oggi voglio parlarvi di questo romanzo: intenso, struggente, bellissimo. L’autrice l’ho conosciuta grazie ad altri libri ma questa volta è riuscita ad intrecciare una trama di una bellezza assoluta: la storia si sviluppa attorno alle figure di Celeste, Pietro e Nadir, tre ragazzi legati indissolubilmente per tutta la vita grazie ad un fratello in comune e a tanto amore. Sono davvero simili come gocce d’acqua e per tutta l’infanzia si svolge un rapporto turbolento tra Celeste e Nadir, coetanei in lizza perenne per le attenzioni di Pietro, il fratello maggiore che li accomuna e per il quale provano una gelosia feroce.

Pietro rappresenta una figura carismatica, intelligente e la pazienza e la comprensione che prova verso i due ragazzini litigiosi sono esemplari, specie dopo la diagnosi che spiega i frequenti malesseri di Celeste, la quale solo grazie a Pietro trova un equilibrio con la malattia, Pietro che esprime tutta la propria delicatezza chiamandola “Riccio di mare”, nomignolo esemplificativo della fragilità interiore nonostante gli aculei caratteriali di Celeste.

Nadir è brutto, ruvido, indomabile, burrascoso, con Celeste scoppiano i litigi peggiori eppure per lei c’è sempre, sino ad instaurare un rapporto morboso di dipendenza affettiva, legati negli anni da un filo indissolubile nonostante l’assenza di legami di sangue. L’amore che li unisce è destabilizzante e a causa di ciò Nadir non riesce a mantenere nessun rapporto di coppia, tornando sempre a casa, da Celeste, per la quale continua ad esserci, nonostante tutto.

La scrittura è bellissima e diretta mentre scandaglia l’animo umano, mentre ci regala delle pagine emotivamente meravigliose; io l’ho iniziato la sera e terminato la mattina dopo, facendoci le ore piccole ed imponendomi una pausa di riposo, ma è stato totalizzante ed emozionante. Una di quelle letture che sono un dono raro.

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“1984” di George Orwell

Lo so, con questa lettura ho scoperto l’acqua calda, eppure mi sono resa conto che, pur conoscendone il titolo, moltissime persone non hanno mai pensato minimamente di leggerlo mentre, a mio avviso, questo è un testo che andrebbe letto nelle scuole. Sia chiaro che, visto il sistema sociale che attualmente ci allieta, non avrei la minima speranza che un libro così scomodo e anti sistema potesse venir preso in considerazione, motivo per il quale ve ne parlo… se anche una sola persona venisse incuriosita dalle mie parole e decidesse di affrontarlo per me sarebbe un successo.

Si tratta di un romanzo distopico assolutamente inquietante nell’immagine predittiva che fornisce del futuro, scritto nel 1949 grazie all’avversione dell’autore per i regimi totalitari conosciuti nel corso della guerra, senza alcuna indicazione politica di parte, ma esclusivamente connessa alla metodologia manipolativa usata.

Il romanzo è ambientato in una società estremamente totalitaria, denominata “Oceania”, in cui il governo dipende totalmente dal Partito, tant’è che è questo a guidare il controllo totale sui cittadini, soggetti a tecniche di sorveglianza e propaganda per il mantenimento dello status quo.

Il protagonista è Winston Smith, impiegato presso il Ministero della Verità, la cui mansione è quella di modificare la storia in maniera tale da adattarla ai diktat politici del momento, ma egli è una persona che non accetta il controllo e che tenta in ogni occasione di resistere alla sua influenza, pur se molto a fatica visto che nemmeno la libertà di pensiero può essere esercitata. I problemi per lui iniziano quando incontra Julia, una donna che condivide le sue opinioni e con la quale inizia una relazione segreta, purtroppo fino a che la loro ribellione non viene scoperta e i due vengono sottoposti ad un processo di rieducazione, comprensivo di torture fisiche e psicologiche fino alla completa rinuncia alla libertà e al pensiero deviante da quello imposto.

Proprio il pensiero è uno dei punti dominanti del romanzo in quanto il concetto di doppio pensiero viene posto in evidenza dall’autore, inteso come la capacità di accettare due idee contraddittorie in contemporanea, ma soprattutto con la convinzione della verità di ambedue; questo è il concetto alla base della propaganda del Partito, che proprio con il controllo della verità cerca di manipolare la mente e le scelte dei cittadini. Un altro concetto di punta del romanzo è dato dalla presenza del Grande Fratello, leader carismatico ed autoritario del Partito, ma soprattutto onnipresente; lo stesso linguaggio utilizzato nella società di Oceania, la “neolingua”, una lingua semplificata e antitetica rispetto al linguaggio indipendente, ha lo scopo di ridurre il pensiero critico e limitare la capacità di ragionamento dei cittadini, essendo scarna e priva di tutte quelle sfumature in grado di stimolare ed arricchire il pensiero logico.

E’ un libro impegnativo, in alcuni tratti anche molto pesante, ma che invita alla riflessione sulla natura del potere, sul controllo, sulla manipolazione da parte dei media, sulla lotta per la propria libertà, in un momento in cui c’è stata una manipolazione di massa, un largo utilizzo della massima “divide et ìmpera” e che, pur con il tardivo risveglio di una parte della popolazione coinvolta, ancora riesce ad addomesticare le masse, non fosse che per la debolezza attuale dell’essere umano, in una società in cui mancano la coesione, l’etica di base, la buona educazione e la gentilezza, lasciando ampio spazio quindi alla prevaricazione, all’arroganza e all’individualismo.

Se siete come me, che negli ultimi anni ho ragionato con la mia testa senza alcun coinvolgimento da parte del pensiero dominante, avete capito e ne apprezzerete la lettura; se non lo siete vi auguro di comprendere.

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“L’albero delle arance amare” di Jokha Alharti

Avevo scaricato su Kindle questo romanzo, testo in merito al quale non ne sapevo nulla, ma un po’ il titolo e un po’ la mia passione per le arance, il tutto condito dall’aspetto esotico del libro ha fatto sì che mi convincessi ad iniziarne la lettura.

Zuhur è una ragazza dell’Oman, trasferitasi in Inghilterra per motivi di studio, e con queste pagine vuole onorare il ricordo della nonna, di una nonna che non c’è più e la cui assenza ha lasciato un tale vuoto che nessuna fotografia o ricordo riescono a spiegare questa sensazione. La mancanza dell’odore di una persona amata, dei rumori prodotti dalla sua esistenza, dell’amore legato alla sua persona… tant’è che Zuhur, nella consapevolezza di una mancanza insostituibile, cerca di dar valore ad una presenza che non c’è più, a quella nonna che profumava di “muschio di zibetto, prezioso olio di aloe e terra antica”.

La figura di Bint ‘Amir diviene protagonista della narrazione, diviene una presenza esagerata nel colmare un’assenza, tra le parole scritte di una Zuhur tormentata dalla solitudine e dall’isolamento causato da una lingua straniera ed una cultura distante dalla propria, dall’impossibilità di esprimersi, dando quindi luogo ad una connessione di ricordi in cui, tra passato e presente, incontriamo la gioventù dolorosa di Bint ‘Amir, le rivoluzioni sentimentali della sorella, il vagare nella demenza di Shaykha, la lotta contro le convenzioni sociali di Kuhi e Imran, il tutto nella malinconia di una Zuhur affamata di esperienze, di nuova vita e di conoscenza di un amore mai provato.

Sono figure romanzate eppure estremamente concrete, condite da sentimenti reali e portati agli occhi del lettore con maestria e dovizia, tant’è che sembra quasi di vedere il colore dei datteri, la forma dell’albero di arance amare e il tintinnio della tenda di perline della camera di Imran; in queste pagine si respira l’atmosfera dell’Oman, il profumo del mercato, i tramonti mozzafiato, i fruscii delle palme di banane, si sente quasi il piacere dell’ombra regalata dall’albero oggetto del titolo. Si vola in continuazione nel passato senza mai portare ad una conclusione del presente, senza mai alcuno spazio per il futuro, non si conosce mai la protagonista, di lei resta solo il dolore, profondo ed intenso, per la nonna che non c’è più…

Non è un libro da leggere con leggerezza, va goduto una pagina alla volta, senza fretta di portarlo a conclusione, anche se io delle volte mi sono persa nel filo del racconto, spesso a causa dei nomi dei personaggi che ovviamente non sono affini alla mia cultura e che quindi mi hanno spesso spiazzata, ma sono pagine intrise di poesia, la scrittura è lenta ma sublime. Non a tutti può piacere, ma sicuramente si tratta di un testo di qualità, vincitore del Booker Prize internazionale, a mio avviso meritatissimo.

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“Finché il caffè caldo” di Toshikazu Kawaguchi

Di questo piccolo libro mi sembrava di avervene già parlato, ma evidentemente mi ero sbagliata: lo lessi l’estate passata, con maggiori aspettative di quanto poi il libro mi abbia donato, tuttavia essendo stato davvero un caso editoriale ho deciso di riprenderlo in mano e darvi qualche cenno in merito.

La narrazione si svolge all’interno di una vecchia caffetteria nella quale, si narra, sia possibile tornare indietro nel tempo prendendo un caffè, ma rispettando cinque determinate regole, precise e restrittive, tanto che spesso gli aspiranti viaggiatori hanno desistito dal tentativo; infatti, pur con la possibilità di poter ritrovare la felicità, tra le suddette regole è necessario occupare una sedia in particolare e sempre rispettando il limite temporale legato al raffreddamento di una tazza di caffè, pena l’impossibilità di ritornare al mondo reale.

Esplicata la procedura si dipanano tante piccole storie, ognuna legata ad un individuo che ha perso qualcosa o qualcuno oppure che ha un rimorso cui rimediare, ogni viaggio nel vapore del caffè è un pezzetto di vita umana, è un toccare con mano i sentimenti altrui, le disperazioni che non trovano riposo, il tutto articolato in quattro racconti, apparentemente scollegati tra loro, ma il cui filo conduttore è sempre il desiderio di ritornare indietro nel tempo per sanare una situazione in sospeso o per tentare di porre rimedio a qualche errore.

Il libro ha ricevuto una vasta eco nell’ambito editoriale, tant’è che sulla stessa scia ne sono seguiti degli altri, che però non ho letto nè sono interessata a farlo. Parere personale: è un libro piccolo piccolo, delicato, narrato con garbo ed educazione, con una leggerezza tutta nipponica ma… non sono riuscita ad apprezzarlo fino in fondo, a metà ero già annoiata. Comunque ci sono ritornata sopra proprio perché continuo a sentire dei pareri entusiasti in giro, magari qualcuna di voi lo apprezzerà, del resto questo un mio mero parere soggettivo quindi se lo leggerete parliamone e sarà un piacere!

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“Appena in tempo” di Emanuela Giordano

Mi sono imbattuta casualmente in queste pagine, un libro che non conoscevo, un po’ come ultimamente sta accadendo spesso, ma che ho iniziato timidamente e con perplessità, per poi divorarlo in pochi giorni; è un romanzo lieve come una piuma, un romanzo d’amore e di amicizia, di timore della vecchiaia, della sua graduale accettazione.

L’ambientazione è una Roma indolente e deturpata dall’incuria, dalla sporcizia, eppure generosa e sempre pronta da accogliere chiunque e in tale scenografia si colloca la figura di Natalia, un’insegnante sessantenne, divorziata e senza figli e che nel tempo si è costruita la propria esistenza, senza scossoni e basata su una serenità oramai collaudata, con qualche fuga culturale saltuaria. Al rientro da Ferrara, meta di una di queste fughe, sul treno nota un distinto signore non più giovane che eppure la incuriosisce: tiene tra le mani un libro e ascolta musica dagli auricolari mentre Natalia non riesce ad evitare di guardarlo con una certa dose di insistenza e sfacciataggine, mentre nella sua mente si costruisce delle storie immaginarie, ispirata dai volti che incontra.

Una volta rincasata, riprendendo in mano il libro interrotto durante il viaggio, scorge un messaggio sull’ultima pagina, nascosto nel testo parzialmente sottolineato, e accompagnato da un numero di telefono: “Bisogna voler bene”. I tentennamenti che la accompagnano sono molti e proseguono finchè non prende coraggio e chiama il numero riportato sul volume, per incontrarvi la voce di Franco, l’affascinante viaggiatore.

Ne nasce una bellissima amicizia, forse il preludio di qualcosa di più, tra timidezza, ritrosia, timore di non essere all’altezza di tutto ciò, eppure è un dono che viene offerto a due persone già rassegnate all’età che avanza e che portano Natalia davanti ad un abbassamento delle proprie difese e al successivo rifiuto di una possibile relazione proprio a causa della particolare situazione personale di Franco, ma la crisi sarà l’occasione per una ripartenza e per una rinascita. A voi il resto della lettura, è un libro delicatissimo e struggente, si legge bene grazie alle poche pagine ed un ottimo interlinea, ne vale la pena.

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“Mille volte Gioia” di Siba Shakib

Questo libro è arrivato tra le mie mani per caso, non ne avevo mai sentito parlare e nè il titolo nè la copertina lasciavano supporre si potesse trattare di un romanzo così bello, anzi… a dire il vero mi davano la sensazione di un romanzetto rosa da spiaggia, tuttavia la curiosità ha prevalso ed è stato un bene in quanto l’ho divorato, pagina dopo pagina, rapita da una storia di resilienza tutta femminile.

La protagonista è Shadi, piccola afghana che subisce dinanzi ai suoi occhi l’uccisione dei propri genitori ad opera dei talebani, ritrovandosi a fianco una sorellina di solo un anno e le ultime parole lasciate loro dalla madre morente: la promessa di vivere. Da quel momento la sua vita passa da un abuso all’altro, inizialmente ad opera di un sedicente zio che occupa la loro casa, impadronendosene, unendo le due sorelline alla propria famiglia grazie a dei matrimoni combinati e usando violenza contro Shadi molteplici volte. Fino all’ultima, quando lei si rende conto che la sorella ha assistito all’intero atto subito dallo zio, il che la porta alla fuga non volendo sporcare la piccola con la visione di un atto di tale gravità; decisivo sarà l’accoglimento, da parte di Tilde, una volontaria italiana, in una sorta di casa famiglia, dove alle sorelle sarà consentito studiare, imparare l’inglese e ricevere una infarinatura di cultura italiana.

Tutto il romanzo è infarcito dal desiderio di indipendenza dimostrato da Shadi e, successivamente, dalle altre compagne del rifugio che le accoglie, sostenuto anche dalla figura dell’Avvocata, madre di una delle ospiti della scuola, indipendenza che non verrà mai meno in Shadi nonostante il ritorno dei talebani al potere, nonostante la prigionia subita ad opera del marito che le è stato imposto, nonostante i primi legami sentimentali della giovane donna, che mai la porteranno a fermarsi nella sua lotta per l’indipendenza ed il rispetto della figura femminile.

E’ un libro che scorre da sè, assolutamente non impegnativo e frutto della fantasia dell’autrice, tuttavia rispecchia una situazione che effettivamente può corrispondere ad una vita reale all’interno della società afghana, in quella Kabul devastata dalla furia integralista talebana, dove non c’è spazio per il rispetto e per l’umanità.

Se lo leggerete so che ne sarà valsa la pena.

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“La casa dei fiori selvatici “ di Mathangi Subramanian

Nel mentre sto preparando un altro post che vi accompagni nella scoperta dell’Egitto, facciamo una pausa con un libro davvero bello e originale: l’ho letto in formato Kindle, acquistato a seguito di un’offerta e senza grandi aspettative, rivelandosi quindi una piacevole sorpresa!

Il romanzo è ambientato in una baraccopoli di Bangalore, in India, il cui nome “Heaven” significa proprio “Paradiso”, dove vivono cinque ragazze: Deepa, Banu, Joy, Rukshana e Padma, i cui tratti caratteriali vengono tracciati dall’autrice con estrema finezza. Si tratta di cinque amiche, della medesima età e che condividono l’instabilità della vita nelle baracche, tra muri fatiscenti e la miseria più assoluta, ma in un ambiente pregno di umanità, quasi a voler bilanciare la mancanza di tutto quanto possa rendere una vita dignitosa.

I quaderni di Banu sono ricchi di descrizioni, di figure umane, di persone, della gente di Paradiso che viene ritratta magistralmente dall’acuto spirito di osservazione della ragazza, lei che osserva l’arrotino e la spazzina, nelle loro particolareggiate descrizioni che vengono accompagnate da disegni ricchi di dettagli. I suoi schizzi fanno emergere la complessità di un mondo talmente variegato da far apparire la povertà quale tratto di una sopravvivenza ricca di bellezza.

L’intero romanzo tocca svariate tematiche, tra le quali le relazioni familiari, la maternità, il sacrificio e la dignità personale, ma soprattutto la solidarietà tra le ragazze e quella che viene offerta loro dalla direttrice della scuola statale, la quale si spende affinché la povertà non costituisca un limite all’istruzione.

Ritornando alla particolare denominazione della baraccopoli, si nota quale questa tragga origine dalla casualità di un cartello spezzato a metà, da cui risulta tale risultato paradossale, tuttavia è un nome che esprime una realtà unita al desiderio di avere una casa, una famiglia e la felicità.

È un romanzo sul “noi”, di una voce corale espressa da un gruppo di adolescenti che imparano ben presto la scaltrezza, dove la figura femminile predomina in tutta la sua potenza e dove non ci sarà mai una sola figura priva del sostegno e della solidarietà del gruppo.

Magnifico.

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