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Il profumo della lettura

Letture

“Orbital” di Samantha Harvey

Oggi vi parlo di un libro conosciuto esclusivamente grazie ad un gruppo di lettura, che personalmente non avevo votato nei sondaggi richiesti per la scelta del titolo ma che alla fine ho letto ed amato. La maggior parte dei membri del gruppo non lo ha apprezzato ma per me è stata pura poesia grazie ad una scrittura che è come un canto; è stata lamentata una trama inconsistente ma se amate i testi riflessivi, quelli che vi accompagnano come una carezza nei momenti di relax, che vi riscaldano il cuore come una copertina calda, allora probabilmente fa per voi.

I protagonisti del romanzo sono sei tra astronauti e cosmonauti (questi ultimi di nazionalità russa, da qui la differenza di terminologia, cosa che ho appreso strada facendo), i quali vengono dagli Stati Uniti, dalla Russia, dall’Italia, dalla Gran Bretagna e dal Giappone, le cui personalità non sono molto delineate singolarmente ma solo nel loro insieme in quanto i singoli caratteri si fondono in un unico che funziona benissimo senza scissioni tra di loro. I brevi tratti di caratterizzazione personale si esplicitano unicamente nei pochi momenti di intimità in cui ricevono notizie da casa, da coloro i quali li immaginano orbitare al di sopra delle proprie vite, nel mentre trascorrono la propria quotidianità cibandosi di cibi disidratati e lottando contro l’assenza di gravità per mantenere al meglio le proprie condizioni fisiche.

La loro missione a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è l’ultima prevista prima dello smantellamento della stessa e grazie ad essa osservano il pianeta scorrere al di sotto di essi, mentre trascorrono il loro tempo dormendo, osservando ricordi, ma sempre quali spettatori distanti con uno sguardo rivolto verso i continenti che scorrono sotto i loro occhi, riflettendo sul significato delle loro esistenze con uno sguardo rivolto al passato e le aspettative nei confronti del futuro.

Qui c’è tutto il contrasto tra l’infinità dello spazio e la fragilità della vita terrena, tra la sensazione di onnipotenza che si può provare fluttuando nello spazio e quella di inutilità rispetto alla vita concreta che pulsa al di sotto della loro orbita. Infatti nonostante il pesante addestramento, lo studio richiesto, le capacità fisiche, alla fine essi sono irrilevanti nell’immensità dello spazio, così come lo sono i terrestri a confronto con l’immensità degli oceani, delle foreste, delle metropoli illuminate durante la notte, dei continenti che scorrono al di sotto. Di fronte a tutto ciò si percepisce la presenza dell’essere umano, tuttavia invisibile di fronte all’immensità di tutto il resto e dinanzi a ciò gli astronauti sono solo uomini lacerati dalla vita che prosegue anche in loro assenza e con la consapevolezza di trovarsi un una condizione di unicità rispetto alla maggior parte degli esseri umani.

La scrittura è incredibile, vi lascio qualche assaggio dei passaggi che più mi hanno affascinata.

“Nella fotografia l’avvicinamento del tifone. È straordinario riuscire a vedere la curva dell’aria che forma gli alisei, il loro flusso verso ovest lungo l’equatore, che raccoglie il calore della superficie dell’oceano. I banchi di nubi formano colonne che attingono forza dall’oceano; più caldo è l’oceano più violenta è la tempesta “.

“Ecco Cuba nel rosa del mattino. Il Sole rimbalza ovunque sulla superficie dell’oceano. I fondali turchesi dei Caraibi e l’orizzonte che fa apparire il mar dei Sargassi”.

“Dopo una settimana o poco più di stupore davanti alle città, i sensi cominciano a espandersi e si innamorano di nuovo della Terra di giorno. La semplicità della terra e del mare senza esseri umani. Il modo in cui sembra respirare, come un animale. L’indifferente ruotare del pianeta nello spazio indifferente e la perfezione della sfera che trascende ogni linguaggio. Il buco nero del Pacifico che diventa un campo d’oro o i puntini della Polinesia Francese , le isole come campioni di cellule, gli atolli come losanghe di opale; poi la spirale del Centro America che ora si allontana sotto di loro per mostrare le Bahamas e la Florida e l’arco di volumi fumanti sulla placca caraibica. L’Uzbekistan in una distesa di ocra e marrone, la bellezza delle montagne innevate del Kirghizistan. L’Oceano Indiano, pulito e brillante, con i suoi blu indescrivibili. Il deserto albicocca del Taklamakan, inviso dalle deboli linee dei letti dei torrenti, confluenze e separazioni. È il percorso diagonale della galassia, un invito nel vuoto sfuggente”.

“…questa Terra priva di interruzioni. Vedrete la sua pienezza, l’assenza di confini se non la linea tra mare e terraferma, dicevano. Non vedrete paesi, solo una sfera rotante che non conosce possibilità di divisioni, e tantomeno di guerre”.

Non aggiungo altro… non è una meraviglia?

Nota: il romanzo é risultato essere il vincitore del Booker Prize 2024.

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“Tatà” di Valérie Perrin

Premetto di amare alla follia questa autrice, narratrice di storie deliziose ma mai scontate, romantiche ma mai stucchevoli, piene di sentimento e di umanità e sempre scorrevolissime; da quando lessi il primo romanzo la adoro nonostante spesso venga stroncata dai lettori più radical chic, a mio avviso quelli che anzichè godersi una buona storia preferiscono elevarsi ad amanti dei grandi classici russi, nonostante a mio avviso spesso non ne abbiano mai aperta un’opera. Momento polemica terminato ma dovuto in quanto anche “Tatà” è stato stroncato da una buona platea di sedicenti lettori impegnati.

E’ un romanzo elegante in cui “nessuno è senza storia”, nemmeno una solitaria calzolaia di Gueugnon, piccolo centro della Borgogna, il cui vissuto viene scoperto con gentile lentezza dalla nipote Agnès, quando ritorna al paese della zia Colette a seguito del decesso di quest’ultima, ritenuta già defunta tre anni prima. Quindi “Colette è rimorta, parola che non esiste da nessuna parte. Non esiste il termine ‘rimorire'”.

Agnès risulta essere la parente più prossima di Colette, che in vita ha amato la nipote con tutta l’anima, nonostante l’allontanamento distratto di Agnès degli ultimi anni, condito dal rimorso per non essere stata più vicina a questa zia che l’amava come una figlia al punto di lasciarle in mano tutto il suo mondo. Oramai non c’è più tempo per ritornare indietro, ma sente di doverle la comprensione, di capire cosa sia accaduto e di chi sia il corpo che riposa nel primo sepolcro della zia; pertanto Agnès, regista in piena crisi creativa e personale, lascia Parigi alla volta di Gueugnon, apparentemente per seguire le pratiche di successione ma in realtà per ripercorrere la vita di Colette.

Le vengono in aiuto delle registrazioni lasciatele dalla zia, che improvvisamente si palesano e il cui ascolto impegnano ore, giorni, settimane della vita di Agnès, una narrazione piena di poesia che svela un intreccio raffinato di esistenze, prima tra tutte quella di Colette, una donna apparentemente stramba ma che svela una vita densa di generosità, la vita di una donna che non lascia figli dietro di sè ma tanto amore per chi l’ha avuta nel cuore, una donna lontana da qualsiasi frivolezza eppure innamorata del calcio, sport maschile per eccellenza, al pari dell’anomalo mestiere della calzolaia, svolto con passione e dedizione per tutta la vita.

L’ascolto di questa audiocassette svela ad Agnès una vita nascosta ma incredibile, fatta di amicizia e di amore, una vita comune eppure eccezionale e ogni ora ascoltata, mentre la zia le parla, diviene straordinaria, il racconto di una vita complessa, lenta, dignitosa ma soprattutto libera.

La narrazione è meravigliosa, apprezzabile da chi ama i libri lunghi e lenti, le storie raccontate sono quasi visivamente cinematografiche in una scenografia che ha tutta la poesia e la gentilezza delle campagne francesi; si raccontano la nostalgia, la lentezza, le piccole cose, le vittorie al pallone e i dischi degli Abba da ballare in maglietta e capelli al vento.

Concludo così: “Mi tremano le mani. Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio”.

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“La casa sul mare celeste” di T. J. Klune

Oggi vi parlo di un libro verso il quale avevo grandi aspettative, benchè purtroppo in parte deluse, ma trattandosi di un volume in merito al quale le opinioni concordano sull’elevata qualità del romanzo ho ritenuto possa essere comunque interessante parlarvene. Io l’ho letto grazie ad un gruppo di lettura, essendo il cosiddetto “libro del mese”, altrimenti non lo avrei mai affrontato facendo parte di un genere letterario che non mi appartiene, ma concordo sul fatto di essere scritto bene, nonostante un paio di passi verso la fine mi abbiano infastidita moltissimo e che, casomai, ve li metto alla fine premettendo la parte spoilerata.

Il protagonista è Linus Baker, un assistente sociale impiegato presso il Dipartimento della Magia Minorile, compito che esegue con assoluta dedizione, rigidità e scrupolo, assicurandosi che i bambini magici crescano in apposite strutture, separati da quelli comuni; egli vive una vita monotona al limite della noia, in compagnia di una gatta schiva al pari suo e di una collezione di dischi in vinile, almeno finchè non viene convocato, senza alcun preavviso, nell’ufficio della Suprema Dirigenza, notizia che lo accoglie con non poca agitazione e preoccupazione.

Scopre così di essere stato scelto per un incarico segreto sull’isola Marsyas al fine di stabilire se il direttore dell’orfanotrofio, tale Arthur Parnassus, abbia i requisiti per gestirlo e se quindi questo debba o meno rimanere aperto; appena sbarca sull’isola, oltretutto stupenda, verdeggiante e in riva, appunto, al mare celeste, si rende conto che i bambini che occupano l’orfanotrofio sono molto diversi da quelli dei quali si è occupato sino a quel momento e che Parnassus in realtà, dietro ai proprio modi affabili, nasconde qualcosa di molto doloroso.

Il romanzo scorre molto bene e tratta i temi della diversità e dell’accettazione, ma lo fa in maniera divertente senza sminuire il valore della narrazione, i personaggi sono tratteggiati in maniera molto accurata e ironica, a tratti risulta essere commovente e tutto ciò cambia in qualche modo l’atteggiamento di Linus che, abbandonando la propria rigidità, svela una parte di sè dolcissima ed inaspettata. Quindi, come vedete, il motivo della delusione è esclusivamente personale: il romanzo è scritto benissimo nonostante alcune critiche feroci ricevute in quanto sembra che l’autore, per sua stessa ammissione, lo abbia ideato ispirandosi ad una crudele storia di cronaca nera, il che a molti non è andato giù avendolo visto quasi come una sorta di sciacallaggio e di sfruttamento del dolore altrui.

ATTENZIONE SPOILER.

E veniamo alla parte che mi ha infastidita moltissimo: alla fine vengono piazzati i consueti rapporti queer, perchè sembra quasi che attualmente se non ci metti la storia omosessuale non si sia in linea con il pensiero dominante e non si possa vendere; per me, pur nel consueto rispetto di tutti (e chi mi conosce sa quanto io abbia sempre difeso i diversi e gli emarginati), questa l’autore se la poteva anche risparmiare.

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“Fiori per Algernon” di Daniel Keyes

“Fiori per Algernon” l’ho conosciuto grazie ad un gruppo di lettura, altrimenti dubito lo avrei mai letto e sarebbe stato un gran peccato perchè scorre benissimo ed è un concentrato di umanità doloroso e consapevole.

Algernon è un topo, ma non un topo qualsiasi in quanto, a seguito di un intervento sperimentale, lo stesso triplica il proprio quoziente intellettivo, tant’è che, al pari suo, il medesimo esperimento viene condotto su un essere umano, Charlie Gordon, un giovane uomo cresciuto con la dolorosa consapevolezza di essere diverso, rifiutato dalla famiglia ma accolto da un gruppo di colleghi, che però gli si rivolteranno contro non appena egli, a seguito di tale esperimento, sarà in grado di elaborare un pensiero proprio e critico, pertanto scomodo al alcuni, di certo a coloro i quali sino a poco tempo prima lo deridevano facendogli credere di averlo a cuore.

Questa è la consapevolezza che maggiormente ferisce dell’intero libro, quella che a me ha fatto più male in quanto, pur egli mantenendo un atteggiamento umile, viene accusato di presunzione, scambiando la sua “nuova” capacità di ragionamento per mera prosopopea; purtroppo però l’effetto dell’esperimento non sarà duraturo, tant’è che ciò si nota inizialmente nel progressivo deterioramento delle facoltà cognitive di Algernon, il topo di laboratorio che Charlie cerca di salvare da una inevitabile fine, sino al decesso dello stesso che viene sottratto alla cremazione in laboratorio a favore di una degna sepoltura.

In questa occasione Charlie, consapevole di quanto lo aspetti, chiede a Dio di non toglierli tutto e questo è il passo più commovente dell’intera narrazione; il resto lo ometto per ovvie ragioni, ma posso dire che l’unico desiderio di Charlie è che vi siano sempre dei fiori sulla tomba di Algernon, alla fine l’unico amico che abbia mai avuto e che lo abbia accettato per ciò che è stato.

E’ il diario di un uomo che voleva essere come tutti gli altri, è una richiesta di accettazione, è un libro scritto in maniera magistrale e che tocca le corde profonde dell’anima.

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“La paziente silenziosa” di Alex Michaelides

Questo è stato un libro che non rientra a pieno titolo tra le letture che di solito affronto e infatti lo avevo acquistato molto tempo fa per mera curiosità, per poi parcheggiarlo su uno scaffale della mia libreria. E invece… bellissimo, letteralmente divorato in tre giorni!

La paziente silenziosa, figura che dà il titolo al romanzo, è Alicia Berenson, un’artista che, chiusasi in un mutismo assoluto dopo il presunto assassinio del marito, stuzzica la curiosità dello psicologo Theo Faber, il quale, mosso dal desiderio di conoscere il movente del delitto e, conseguentemente, del mutismo della donna, riesce ad essere assunto dalla clinica in cui la stessa viene curata, nonchè ad averla come paziente.

Nonostante Theo si trovi ad affrontare gli ostacoli frapposti da un collega, a dire il vero poco trasparente, insiste nel voler penetrare il mutismo di Alicia, sicuro di potercela fare e di capire cosa sia accaduto in realtà al marito Gabriel, certo che le cose non siano come appaiono; la narrazione si svolge alternando il punto di vista di Theo in veste di narratore e di psicologo e quello di Alicia, ripescato nel passato della stessa, in un magistrale alternarsi di fatti e di punti di vista che inducono il lettore a proseguire nella lettura e infondendogli la curiosità di comprendere quanto emerge capitolo dopo capitolo, evidenziando un gioco subdolo e manipolatorio.

E’ difficile raccontare di più senza sconfinare nello spoiler, ma si tratta di una situazione borderline assolutamente intrigante, in cui alla fine il lettore si trova spiazzato e forse anche un po’ preso in giro, non nel senso di arrivare alla frustrazione, ma di rimanere stupito, sconvolto, esterefatto dal percorso che improvvisamente accompagna al finale.

Lo stile di scrittura è molto scorrevole, pur se asciutto, ma porta ad un crescendo di curiosità che accompagna il lettore da un capitolo all’altro senza permettere pause; il narratore non gioca in maniera onesta con il lettore fino alla fine ma è proprio in questo che risiedono il pathos e la necessità di arrivare sino alla fine, a perdifiato da un capitolo all’altro.

E’ trascinante, è borderline, è travolgente, è incredibile nel finale, un finale secco, inaspettato, che alcuni lettori non hanno gradito ma, sì, ci stava assolutamente.

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“Piranesi” di Susanna Clarke

Un libro che ho voluto fortemente leggere, che ami oppure odi, e che ho affrontato nel periodo di Halloween, perfetta “stagionalizzazione” per l’atmosfera dark academia che questo romanzo regala.

Alle prime pagine sembra di essere catapultati in un universo parallelo, in una biblioteca infinita ricca di statue, di volumi, da una stanza all’altra, in un susseguirsi interminabile di spazi da esplorare ricchi di eleganti librerie decorate e di sculture bianche; si tratta di un contesto del quale nulla è spiegato in relazione all’origine, allo scopo o alle dimensioni dello spazio, l’unica certezza è che vi vive Piranesi, una sorte di custode del quale non si conosce il nome, nemmeno l’origine, ma si sa solo che vive in perfetta sudditanza rispetto a “L’Altro”, un soggetto che ha il potere, le capacità decisionali e direttive su tutto. La Casa sembra quasi una biblioteca perduta in cui gli esseri umani sono raffigurati solo in veste di scheletri e corpi senza vita, che Piranesi ogni giorno accudisce portando loro piccoli oggetti in memoria, con grande cura e rispetto; egli vive perpetuando una serie di azioni ripetitive ed abitudinarie, segnando ogni passaggio sui proprio diari, meticolosamente, secondo una propria progressione temporale.

Il lettore si chiede chi sia Piranesi, da quanto tempo egli viva nella Casa ma soprattutto per quale motivo egli vi si trovi, si chiede quale sia il significato della Casa e dove si trovi questo mondo alienante minuziosamente descritto dall’autrice e di cui Piranesi ogni giorno si accinge a scoprire nuove stanze, riportandone con dovizia i particolari all’Altro, il quale sfrutta ciò che gli viene riportato per comprendere una conoscenza nota solo ad egli, la Grande e Segreta Conoscenza.

Nel corso del progredire della trama la quotidianità inizia a lasciare spazio alla diffidenza, al dubbio che L’Altro non sia il compagno ideale e che una minaccia possa essere in arrivo e ciò porta Piranesi a dubitare, a voltare le spalle all’ordine precostituito, generando un’ansia feroce nell’Altro. Non proseguo oltre, ma pongo l’accento sul fascino di questo strano mondo di saloni e maree e sul senso costante di freddo ed umidità che la bravura dell’autrice riesce ad instillare nel lettore, al punto da generargli fastidio.

Ho trovato una buona parte del libro assolutamente noiosa, non perchè sia scadente la narrazione (anzi, è geniale), ma perchè mi aspettavo un libro diverso, poi qualcosa cambia, inizia il sospetto e allora il livello di interesse cresce, il lettore vuole finalmente capire… e si legge tutto d’un fiato!

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“Nulla ti cancella” di Michel Bussi

Di Bussi avevo letto “Ninfee nere”, acclamato e ritenuto superiore a “Nulla ti cancella”, eppure io ho amato molto più quest’ultimo, tant’è che ve ne voglio parlare sperando di trasmettervi ciò che ho provato io.

Una mattina di giugno dell’anno 2010 un bimbo di dieci anni, Esteban, scompare sulla spiaggia basca di Saint-Jean-de-Luz, senza lasciare alcuna traccia, alcun testimone oculare, nulla di nulla come se fosse scomparso nel vuoto assoluto; la madre di Esteban è la dottoressa Maddi Liberi, la quale decide di trasferirsi in Normandia e di rifarsi una vita lontana dal luogo del dolore. Un decennio dopo ella ritorna a Sain-Jean e, sulla stessa spiaggia dove scomparve il figlio, vede un bambino, apparentemente della stessa età di Esteban, che è la copia identica del figlio scomparso e che addirittura porta un costume da bagno identico a quello del figlio oltre a presentare una voglia sulla pelle assolutamente uguale a quella di Esteban. Da questo punto inizia il mistero, la trama si infittisce sino a toccare il soprannaturale, considerando che sono trascorsi dieci anni dalla sparizione e che quindi comunque le età dei due bambini sarebbero diverse. Maddi si trasferisce a Murol, dove apre uno studio medico all’unico scopo di spiare la vita di Tom, questo è il nome del bambino che ha destato il suo interesse, scoprendo presto che lo stesso corre un grave pericolo e cercando quindi di salvarlo, destando però dei sospetti in paese. Nel mentre le coincidenze sembrano moltiplicarsi, arrivando a toccare addirittura le ipotesi di reincarnazione, nonostante la mente scientifica di Maddi, che si trova a dover fare i conti con la propria incredulità condita dal dolore di madre, ma che alla fine darà origine ad un susseguirsi di eventi che avranno dell’incredibile ma in grado di tenere il lettore incatenato alla trama fino all’ultima pagina.

Che Bussi scriva benissimo lo avevo già compreso dalla lettura precedente, ma per me questo è stato un libro magnifico, ovviamente il fatto che io abbia avuto modo di apprezzare di persona i luoghi descritti mi ha aiutata nell’immedesimarmi nella narrazione, ma a prescindere da ciò mi sento di consigliarne assolutamente la lettura.

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“Il dio dei boschi” di Liz Moore

Questo è un libro che ho avuto modo di leggere grazie alla partecipazione ad un gruppo di lettura e che, probabilmente, diversamente non avrei avuto modo di conoscere e quindi nemmeno di leggere. Sicuramente non rientra nel genere di letture che prediligo e, a libro portato a termine con gran fatica, non posso che confermare.

Ma veniamo al contenuto, visto che comunque si tratta di un romanzo scritto bene e che può piacere a chi ha dei gusti diversi dai miei.

Il tutto si svolge su piani temporali diversi, ma iniziamo dal 1975, anno in cui Barbara Van Laar, un’adolescente problematica, scompare dal campo estivo fondato dalla propria famiglia all’interno del parco delle Adirondack; la notizia fa immediatamente scalpore visto che anni prima anche suo fratello Bear scomparve in circostanze misteriose, senza essere mai ritrovato. Di quest’ultima sparizione se ne occupa Judyta Luptack, giovane investigatrice che ben presto nota la totale omertà che aleggia intorno alla famiglia, a partire dalla tardiva richiesta di soccorso da parte degli uomini della famiglia in occasione della scomparsa di Bear, all’atteggiamento della madre dei ragazzi, ancora in preda ad un dolore devastante, ma anche del capo della polizia locale che dimostra troppa fretta nel voler trovare un colpevole e della figura di Tracy, l’unica amica di Barbara e che sa sicuramente molto più di quanto appare.

I personaggi che popolano il romanzo sono molti, ma mi fermo qui per non spoilerare quel poco che a mio avviso potrebbe destare interesse, per non svelare le dinamiche familiari che potrebbero interessare il lettore e stuzzicare la curiosità e la suspence.

Lungo il dipanarsi delle pagine le indagini procedono, alternando passato e presente e portando alla luce tradimenti, menzogne e potere, mescolando gli elementi tipici del thriller con quelli del dramma familiare, il tutto focalizzando l’attenzione su una comunità benestante ma che ingabbia i sentimenti personali e le ambizioni dei singoli. L’ambientazione boschiva è anche una metafora delle contraddizioni umane che si perdono all’interno di una foresta impenetrabile, realizzando un ritratto dell’amicizia, della giovinezza e, alla fine, anche delle seconde possibilità che si appalesano quando si ha il coraggio di scegliere diversamente, anche non seguendo le regole precostituite. Ultima “tip” relativa al titolo, che mi è stata spiegata in quanto non ne capivo l’essenza, è che il “Dio” citato è il dio Pan, linguisticamente connesso al termine “panic”, che dovrebbe permeare l’intero romanzo come un thriller degno di tale nome.

Opinione personale: banale, scontato, noioso, i cui personaggi non sono nemmeno ben delineati, i piani temporali si confondono; la scrittura è però scorrevolissima, aiutando quindi anche il lettore più demotivato ad arrivare alla fine, ad un finale che però so aver lasciato interdetti e delusi innumerevoli lettori.

A voi la lettura e la sacrosanta opinione personale, soprattutto alla luce del fatto che il libro è uno dei bestsellers americani del 2024, selezionato per il Summer Book Club di Jimmy Fallon.

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“Tutta la vita che resta” di Roberta Recchia

Uno dei romanzi più acclamati dell’anno appena trascorso, una narrazione imperniata su un piano temporale “prima del dolore’ ed uno straziato da uno strappo impossibile da ricucire, segnato da un evento atrocemente attuale, una di quelle cose che mai dovrebbero accadere e che invece purtroppo funestano spesso la cronaca nera.

Marisa e Stelvio, nella Roma degli anni cinquanta, si incontrano nella bottega della famiglia di lei, si innamorano e creano una famiglia, arricchita dalla nascita di Betta e di un figlio maschio, che però nella narrazione, e forse anche nella loro vita, rimane sempre un po’ in disparte, a vantaggio di Betta, bellissima, vitale, piena di energia e di intraprendenza, di una voglia di libertà che la porterà a fare la scelta sbagliata. E poi c’è Miriam, la cui delicata e fragile personalità si svelerà solo nel piano temporale del “dopo”, quando Betta non ci sarà più, portata via in una notte che segnerà a vita l’anima di Miriam, testimone dell’efferata ferocia perpetrata su Betta.

Le pagine ad un certo punto si aprono su un mondo di omertà, di silenzi, di consapevolezze taciute che lasciano l’adolescenza in balia dei pregiudizi, lacerando di dolore una madre che non vede più una vita possibile, un padre che affronta il lutto a modo proprio e Miriam che cerca di farsi del male in ogni modo possibile, abbandonata anche dal perbenismo dilagante nella propria famiglia. L’unica speranza di togliersi di dosso il macigno del dolore e del silenzio, per lei, viene dall’incontro con Leo e dalla sua schiettezza; Leo vive nella miseria, in quel mondo lontano anni luce dalla realtà benestante di Miriam, eppure sarà lui, con la propria caparbietà e con i propri sentimenti, a portare alla luce tutte le verità celate e ad accompagnare Miriam fuori dal baratro della sofferenza.

È un romanzo dolcissimo, i personaggi sono molto ben delineati, permeato da tanto dolore ma anche pregno di speranza, in cui vengono toccate le relazioni familiari, la superficialità della classe borghese e il gran cuore di un borgataro che, nonostante tutto, rappresenterà la guarigione di Miriam; c’è la figura di Corallina, di una delicatezza meravigliosa e ricca di sentimento, ma soprattutto c’è la Scrittura, con l’iniziale volutamente al maiuscolo, perché potente, spietata e tenera.

Leggetelo, se ancora non l’avete fatto.

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“Le ragazze di Urania Cottage” di Stacey Halls

Oggi parliamo virtualmente (tutti davanti ad una tazza di tè e a dei pasticcini, al caldo del camino) di un romanzo che ho divorato, ambientato nell’Inghilterra vittoriana di David Copperfield, incentrato sulla resilienza e sulla forza delle donne, ed ispirato ad una struttura realmente esistita.

La fondatrice di Urania Cottage è Angela Burdett-Coutts, una ricca ereditiera costantemente perseguitata da Richard Dunn, un uomo assolutamente non in grado di accettare un rifiuto, oltretutto oltraggioso per l’epoca, e che appare quale una presenza costante lungo l’intera narrazione; Martha e Josephine, nonostante le passate vicende personali, cercano di costruirsi una vita dignitosa intrecciando le loro vite in tutto il romanzo e costituendone quindi delle colonne portanti. A vigilare sull’intera vita del cottage incontriamo la figura di Mrs Holdsworth, una diligente ed instancabile vedova che ricopre il ruolo di direttrice ma che, sotto una corazza di integerrima correttezza, nasconde i proprio dolori e le proprie debolezze.

Tutte le ragazze che passano dal cottage sono accompagnate da un passato pesante e complicato e il loro ingresso nella struttura viene offerto quale possibilità di redenzione: la prima ad entrarvi sarà proprio Martha, la quale sogna l’Australia ma non prima di aver ritrovato la sorella minore Emily, della quale da tempo non ha più alcuna notizia, portandoci quindi un’altra figura la cui vita andrà ad intrecciarsi a quelle della altre protagoniste , tutte al femminile.

La vita al cottage risulta essere molto ritirata, al punto da pretendere un reale isolamento da parte delle ospiti, le quali hanno davanti a sè delle giornate scandite dalle attività quotidiane e da istruzioni ben definite, con la precisa regola di non condividere mai e con nessuno le motivazioni che le hanno portate alla struttura, al fine di poter ricominciare lasciandosi tutto alle spalle.

E ora veniamo all’aspetto storico che ha ispirato il romanzo: nel novembre del 1847, a Londra, Charles Dickens inaugura Urania Cottage, una “Home for Homeless Women”, quindi una sorta di rifugio che riveste anche una funzione di esperimento sociale, una dei cui membri del comitato è realmente la Angela Burdett-Coutts del romanzo. Le attività precipue della struttura sono indirizzate al recupero delle giovani donne della classe operaia che, pur uscite da istituti penali, risultano essere meritevoli di un’altra possibilità, motivo per il quale viene loro impartito un insegnamento di base ed educate alle arti domestiche, in maniera tale da consentire loro una futura occupazione, un matrimonio oppure un espatrio presso le terre coloniali. Tale realtà salvò molte donne, personalmente selezionate da Dickens, da una vita di violenze, di miseria e di prostituzione, fornendo quindi al lettore una chiara visione di quella che poteva essere la vita di una donna nel periodo vittoriano, spesso osannato nelle ambientazioni di molti testi ma spesso pericoloso per le donne che non avevano alle spalle un sufficiente background familiare.

Il romanzo è bellissimo, scorre alla velocità della luce, lo si divora in breve tempo e, nel mentre si gode della narrazione, si approfondisce uno spaccato storico realmente esistito e che, almeno per quanto mi riguarda, mi ha sempre affascinata (sarà l’amore che ho sempre provato per le opere di Dickens…).

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