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Il profumo della lettura

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“La ragazza del convenience store” di Murata Sayaka

Avevo letto “Parti e omicidi” della medesima autrice, motivo che mi ha spinta ad approfondire il modo di scrivere alquanto originale di Murata Sayaka che, anche in questo romanzo, non si smentisce affatto e non delude.

La protagonista è Furikura Keiko, una trentaseienne molto introversa e che preferisce vivere secondo i proprio canoni, discostandosi in toto dalle aspettative altrui e scegliendo di lavorare in un konbini, piccolo convenience store aperto ventiquattro ore al giorno e sette giorni a settimana. La famiglia e gli amici sono preoccupati per le basse aspettative che Keiko sembra dimostrare, sperando che la stessa decida di impiegare meglio il proprio tempo costruendosi una famiglia. Keiko però appare totalmente incapace di adeguarsi alle aspettative altrui, tant’è che anche nel piccolo universo del konbini mantiene il proprio spirito anticonformista, limitandosi a rispettare le poche regole richieste per mantenere l’efficienza professionale ed essere una commessa perfetta, stante il fatto che da diciott’anni è quello il proprio mondo, l’unico in cui sembra capace di vivere ed essere se stessa.

Il tutto finchè non incontra Shiraha, uno strambo collega dalla mentalità retrograda e privo di alcuna voglia di lavorare, che cerca di imporsi sulla volontà di Keiko inducendo il lettore ad una sana rabbia (io personalmente lo avrei preso a calci nel sedere). Per conoscere la scelta di Keiko, se dedicarsi a Shiraha oppure ritornare al mondo del konbini, è necessario leggere il libro, ma voglio evidenziare il modo di scrivere dell’autrice e i suoi contenuti, che pongono l’accento, con stile asciutto e spesso claustrofobico, su una società profondamente diversa dalla nostra, dove la cieca obbedienza alla regola precostituita è praticamente un obbligo, dove il ragionamento critico non trova spazio e l’adeguarsi alla massa è quasi un dogma.

Non è detto che sia un genere letterario adatto a tutti, ma si legge in una giornata grazie alla scorrevolezza che permea comunque un testo di poche pagine.

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“L’inverno dei leoni. La saga dei Florio” di Stefania Auci

Dopo aver divorato il primo libro, qui ci troviamo di fronte all’evoluzione della famiglia Florio, in cui l’alternarsi costante di Vincenzo e di Ignazio, nomi che ricorrono ad ogni generazione e che per comprendere al meglio è necessaria un’attenta lettura di ambedue i volumi, dà i natali a Ignazziddu, dal carattere debole e che segnerà per sempre le vicende familiari, di fatto portando al tracollo tutto l’impero creato dai suoi predecessori.

Oramai la famiglia Florio ha vinto sull’ostruzionismo della città di Palermo, i tempi della miseria sono lontani grazie alla loro determinazione imprenditoriale, ha palazzi, fabbriche, navi, tonnare e denaro a profusione, tutti i membri di essa sono ammirati e rispettati, il che rappresenta un buon inizio per il giovane Ignazio che, nato nella ricchezza, non porta con sè la fiamma del riscatto che ha permesso ai suoi avi di crescere economicamente e socialmente. Egli vuole spingersi verso Roma, verso l’Europa, soprattutto verso la politica, senza averne però le capacità; si fida delle persone sbagliate senza riporre fiducia in coloro i quali ne sarebbero meritevoli, ha un cuore gelido per aver dovuto abbandonare un amore forse dannoso per il proprio destino, è totalmente incapace di provare empatia per chiunque. Il danno finale lo fa Ignazziddu, suo figlio, che a poco più di vent’anni si ritrova in mano un impero, che è totalmente impreparato a gestire, pur provandoci ma senza risultati apprezzabili; Ignazziddu fa parte della famiglia ma non ha nulla dello spirito dei Florio, a parte la presenza di Franca, donna capace al pari di Giovanna, la moglie di Ignazio.

Infatti la grande protagonista del secondo volume è proprio Franca, regina bellissima, innamorata, gelosa, desiderosa di ricevere qualche briciola di affetto eppure in grado di creare attorno a sè una corazza atta a difendere ogni sua debolezza dinanzi alla società; Franca deve conquistare il proprio posto all’interno di una famiglia potente e può farlo solo con il distacco dai propri sentimenti, al pari della suocera Giovanna e della cognata Giulia, le quali hanno già compreso quanto alto sia il prezzo da pagare per essere intoccabili e rispettate.

Questo secondo volume si presenta molto più articolato del primo, è intriso di politica, di storia ed è molto descrittivo in merito ai cambiamenti della società nel corso degli anni, tant’è che io l’ho trovato più impegnativo del primo, che avevo apprezzato maggiormente, ma quello che più risalta è come in queste pagine si apprenda del crollo dell’impero dei Florio, a causa dell’incapacità e della debolezza di Ignazziddu, che mattone dopo mattone riesce a distruggere tutto il valore creato dai suoi avi con fatica e determinazione, per incapacità e a seguito di pessimi consigli. Si legge di una città violenta, problematica, scontenta eppure l’atmosfera è sempre la stessa, quella circondata dalle acque cristalline del mar di Sicilia, quella tipicamente mediterranea che ancora una volta mi ha incantata.

Sono due libri perfetti per l’estate, volendo stagionalizzare le letture, cosa che io abitualmente faccio per meglio immergermi nelle atmosfere descritte dagli autori, motivo per il quale ho atteso per poterveli proporre. Sono davvero tanto tanto belli.

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“I leoni di Sicilia. La saga dei Florio” di Stefania Auci

Oggi affronto un libro letto oramai molti mesi di fa, ma talmente corposo che ho atteso un po’ per descriverlo a chi ancora non lo avesse letto: si narra dell’ascesa e, nel volume successivo, della decadenza, della famiglia Florio, della loro storia a partire dal 1799, anno in cui da Bagnara Calabra sbarcano a Palermo, tra le frustrazioni di parte della famiglia e le mire espansionistiche dei maschi di casa.

I fratelli Paolo ed Ignazio Florio, una volta raggiunta Palermo, in breve tempo portano la loro bottega di spezie ad essere la migliore della città, grazie alla loro caparbietà e alla voglia di riscatto, raggiungendo ricchezza e potere; con grandissima ambizione avviano il commercio di zolfo, acquistano beni immobiliari e creano una compagnia di navigazione, fondando di fatto un vero e proprio impero in brevissimo tempo. Seguirà l’attività di Vincenzo, figlio di Paolo, che con gran capacità imprenditoriale, fonderà le Cantine Florio rendendo il marsala, vino da poveri, un nettare degno degli dei, prodotto per il quale ancora oggi ne ricordiamo il nome; ben presto realizza, a Favignana, anche un metodo per la conservazione del tonno, in lattina e sott’olio, praticamente come noi lo conosciamo oggi, portandone quindi il consumo a livello europeo.

La città di Palermo osserva incredula la loro espansione, tuttavia pur sempre con disprezzo e con malcelata invidia, conservando per la famiglia Florio sempre l’epiteto di stranieri e di facchini e non accettando che tanta spietata caparbietà possa aver portato così in alto un’imprenditoria importata dalla Calabria; eppure l’ambizione dei Florio tanto raggiunge punte elevate nel commercio quanto ci troviamo di fronte a degli uomini fragili dal punto di vista umano e degli affetti, uomini che senza delle donne eccezionali accanto non sarebbero nulla. La moglie di Paolo, Giuseppina, sacrifica ogni cosa e ogni affetto per la stabilità familiare, mentre Giulia, giovane milanese che fa il proprio ingresso in famiglia quale compagna di Vincenzo, diviene una donna potente ed inattaccabile.

E’ un libro in cui si respira il profumo dell’Aromateria dei Florio e l’odore del mare, in cui si ammira l’ascesa di due uomini capaci ed ambiziosi, in cui il sacrificio di ciascuno porta a dei frutti rapidi ed insperati, che si oppone a tutte le malelingue che li vorrebbero trascinare a terra, rose dall’invidia e dalla cattiveria, eppure i Florio volano alto, al di sopra di tutto, in una Palermo che i commercianti locali vorrebbero solo per se stessi ma che viene conquistata completamente da Paolo e Vincenzo, nonostante tutto.

Eppure non ogni cosa andrà benissimo, ma lo vedremo nel seguito del primo romanzo.

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“Bed & Breakfast and Books: il club del libro alla fine del mondo” di Frida Skyback

Questo è uno di quei libri scelti a sentimento, a partire dal calore di una copertina e dal titolo assolutamente “cozy”, volume del quale ho iniziato la lettura appena è entrato in casa e che ho voluto in formato cartaceo proprio per poterne accarezzare la copertina e guardarmela nemmeno fosse un pasticcino (eh lo so, ho la passione per i libri oltre che per la lettura, nonostante io sia un’accanita sostenitrice degli ebooks).

La narrazione parte dalla figura di Patricia, la quale non ha più notizie della sorella Madeleine dal 1987, anno in cui ella decise di partire alla volta della Svezia per poter svolgere un tirocinio nella comunità parrocchiale del paese; nonostante la rassegnazione raggiunta nel corso degli anni, Patricia riceve una lettera contenente la collana che lei stessa regalò alla sorella, inducendola a ripartire alla volta della costa svedese, dopo esserci già stata in precedenza nella infruttuosa ricerca di notizie di Madeleine.

Una volta raggiunto il paese, Patricia trova alloggio al Bed & Breakfast and Books, gestito da Mona e frequentato da un gruppo di donne del luogo, le stesse che hanno organizzato un circolo di lettura alquanto improbabile, ma che a lei appare quale un luogo assolutamente accogliente dal quale partire per capire cosa sia accaduto alla sorella e chi sia stato l’autore della missiva contenete la collana.

Il romanzo si svolge lungo due linee temporali, in quanto narra anche le vicende di Madeleine oltre a quelle di Patricia, dando vita ad un romanzo in cui si intrecciano le vite di molte donne in cerca di un futuro sicuro, tra storie che scaldano il cuore e paesaggi mozzafiato.

E’ un libro per chi, come me, ama evadere anche con alcune letture soft e che apprezza le ambientazioni ricche di elementi naturali e che donano quella magia che solo le atmosfere nordiche possono dare.

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“Ieri” di Agota Kristof

“A volte il cielo era bello, ma io amavo il vento, la pioggia, le nuvole. La pioggia mi incollava i capelli sulla fronte, nel collo, negli occhi. Il vento mi asciugava i capelli, mi carezzava il viso”.

Dopo aver letto “Trilogia della città di K.” sono rimasta molto colpita dalla scrittura asciutta, decadente e graffiante di Agota Kristof, autrice ungherese naturalizzata svizzera, nata a metà degli anni trenta e che ha scritto quasi esclusivamente in francese, autodefinendosi una “analfabeta” non essendo in grado di padroneggiare alla perfezione la lingua di adozione.

Qui siamo di fronte ad un libro di nemmeno cento pagine ma che cattura il lettore dopo poche righe: conosciamo Tobias Horvath, un emigrato che sta affogando nella noia costante di una vita abitudinaria, nella ripetizione di una gestualità volta esclusivamente alla mera sopravvivenza, dal lavoro noiosissimo e ripetitivo, alla miseria incalzante che però risulta essere meglio di ciò che si è lasciato alle spalle.

Nato poverissimo in “un villaggio senza nome, in un paese senza importanza”, trascorre l’infanzia sotto l’ombra della vergogna di una madre mendicante, ladra e prostituta, di una madre che non ce la fa e che raccoglie gli scarti della società per sfamare e vestire il figlio. Tobias rimane l’unico figlio della donna, quello che sopravvive a rapporti occasionali della madre e, probabilmente, a qualche interruzione di gravidanza e tra gli uomini che entrano ed escono da casa e dal letto della madre, scopre chi è il suo vero padre.

Dopo aver tentato di porre in atto l’omicidio dei due fedifraghi egli fugge inventandosi una nuova vita da orfano, rifugiandosi nella scrittura e nella idealizzazione di Line, la donna immaginaria dei suoi sogni. Line un giorno lo raggiungerà nelle vesti della sua sorellastra, pur se inconsapevole di esserlo, dando origine ad un amore impossibile che non supererà mai il divario socioeconomico dei due, generando emozioni e dolore in Tobias.

Sono poche pagine, solo novantanove più poche righe di epilogo, ma intrise di attesa, di emozioni, di dolore e di accettazione, forse l’unica soluzione alla vita irrisolta del protagonista.

Lo si legge in un pomeriggio ma merita tanto.

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“Orbital” di Samantha Harvey

Oggi vi parlo di un libro conosciuto esclusivamente grazie ad un gruppo di lettura, che personalmente non avevo votato nei sondaggi richiesti per la scelta del titolo ma che alla fine ho letto ed amato. La maggior parte dei membri del gruppo non lo ha apprezzato ma per me è stata pura poesia grazie ad una scrittura che è come un canto; è stata lamentata una trama inconsistente ma se amate i testi riflessivi, quelli che vi accompagnano come una carezza nei momenti di relax, che vi riscaldano il cuore come una copertina calda, allora probabilmente fa per voi.

I protagonisti del romanzo sono sei tra astronauti e cosmonauti (questi ultimi di nazionalità russa, da qui la differenza di terminologia, cosa che ho appreso strada facendo), i quali vengono dagli Stati Uniti, dalla Russia, dall’Italia, dalla Gran Bretagna e dal Giappone, le cui personalità non sono molto delineate singolarmente ma solo nel loro insieme in quanto i singoli caratteri si fondono in un unico che funziona benissimo senza scissioni tra di loro. I brevi tratti di caratterizzazione personale si esplicitano unicamente nei pochi momenti di intimità in cui ricevono notizie da casa, da coloro i quali li immaginano orbitare al di sopra delle proprie vite, nel mentre trascorrono la propria quotidianità cibandosi di cibi disidratati e lottando contro l’assenza di gravità per mantenere al meglio le proprie condizioni fisiche.

La loro missione a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è l’ultima prevista prima dello smantellamento della stessa e grazie ad essa osservano il pianeta scorrere al di sotto di essi, mentre trascorrono il loro tempo dormendo, osservando ricordi, ma sempre quali spettatori distanti con uno sguardo rivolto verso i continenti che scorrono sotto i loro occhi, riflettendo sul significato delle loro esistenze con uno sguardo rivolto al passato e le aspettative nei confronti del futuro.

Qui c’è tutto il contrasto tra l’infinità dello spazio e la fragilità della vita terrena, tra la sensazione di onnipotenza che si può provare fluttuando nello spazio e quella di inutilità rispetto alla vita concreta che pulsa al di sotto della loro orbita. Infatti nonostante il pesante addestramento, lo studio richiesto, le capacità fisiche, alla fine essi sono irrilevanti nell’immensità dello spazio, così come lo sono i terrestri a confronto con l’immensità degli oceani, delle foreste, delle metropoli illuminate durante la notte, dei continenti che scorrono al di sotto. Di fronte a tutto ciò si percepisce la presenza dell’essere umano, tuttavia invisibile di fronte all’immensità di tutto il resto e dinanzi a ciò gli astronauti sono solo uomini lacerati dalla vita che prosegue anche in loro assenza e con la consapevolezza di trovarsi un una condizione di unicità rispetto alla maggior parte degli esseri umani.

La scrittura è incredibile, vi lascio qualche assaggio dei passaggi che più mi hanno affascinata.

“Nella fotografia l’avvicinamento del tifone. È straordinario riuscire a vedere la curva dell’aria che forma gli alisei, il loro flusso verso ovest lungo l’equatore, che raccoglie il calore della superficie dell’oceano. I banchi di nubi formano colonne che attingono forza dall’oceano; più caldo è l’oceano più violenta è la tempesta “.

“Ecco Cuba nel rosa del mattino. Il Sole rimbalza ovunque sulla superficie dell’oceano. I fondali turchesi dei Caraibi e l’orizzonte che fa apparire il mar dei Sargassi”.

“Dopo una settimana o poco più di stupore davanti alle città, i sensi cominciano a espandersi e si innamorano di nuovo della Terra di giorno. La semplicità della terra e del mare senza esseri umani. Il modo in cui sembra respirare, come un animale. L’indifferente ruotare del pianeta nello spazio indifferente e la perfezione della sfera che trascende ogni linguaggio. Il buco nero del Pacifico che diventa un campo d’oro o i puntini della Polinesia Francese , le isole come campioni di cellule, gli atolli come losanghe di opale; poi la spirale del Centro America che ora si allontana sotto di loro per mostrare le Bahamas e la Florida e l’arco di volumi fumanti sulla placca caraibica. L’Uzbekistan in una distesa di ocra e marrone, la bellezza delle montagne innevate del Kirghizistan. L’Oceano Indiano, pulito e brillante, con i suoi blu indescrivibili. Il deserto albicocca del Taklamakan, inviso dalle deboli linee dei letti dei torrenti, confluenze e separazioni. È il percorso diagonale della galassia, un invito nel vuoto sfuggente”.

“…questa Terra priva di interruzioni. Vedrete la sua pienezza, l’assenza di confini se non la linea tra mare e terraferma, dicevano. Non vedrete paesi, solo una sfera rotante che non conosce possibilità di divisioni, e tantomeno di guerre”.

Non aggiungo altro… non è una meraviglia?

Nota: il romanzo é risultato essere il vincitore del Booker Prize 2024.

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“Tatà” di Valérie Perrin

Premetto di amare alla follia questa autrice, narratrice di storie deliziose ma mai scontate, romantiche ma mai stucchevoli, piene di sentimento e di umanità e sempre scorrevolissime; da quando lessi il primo romanzo la adoro nonostante spesso venga stroncata dai lettori più radical chic, a mio avviso quelli che anzichè godersi una buona storia preferiscono elevarsi ad amanti dei grandi classici russi, nonostante a mio avviso spesso non ne abbiano mai aperta un’opera. Momento polemica terminato ma dovuto in quanto anche “Tatà” è stato stroncato da una buona platea di sedicenti lettori impegnati.

E’ un romanzo elegante in cui “nessuno è senza storia”, nemmeno una solitaria calzolaia di Gueugnon, piccolo centro della Borgogna, il cui vissuto viene scoperto con gentile lentezza dalla nipote Agnès, quando ritorna al paese della zia Colette a seguito del decesso di quest’ultima, ritenuta già defunta tre anni prima. Quindi “Colette è rimorta, parola che non esiste da nessuna parte. Non esiste il termine ‘rimorire'”.

Agnès risulta essere la parente più prossima di Colette, che in vita ha amato la nipote con tutta l’anima, nonostante l’allontanamento distratto di Agnès degli ultimi anni, condito dal rimorso per non essere stata più vicina a questa zia che l’amava come una figlia al punto di lasciarle in mano tutto il suo mondo. Oramai non c’è più tempo per ritornare indietro, ma sente di doverle la comprensione, di capire cosa sia accaduto e di chi sia il corpo che riposa nel primo sepolcro della zia; pertanto Agnès, regista in piena crisi creativa e personale, lascia Parigi alla volta di Gueugnon, apparentemente per seguire le pratiche di successione ma in realtà per ripercorrere la vita di Colette.

Le vengono in aiuto delle registrazioni lasciatele dalla zia, che improvvisamente si palesano e il cui ascolto impegnano ore, giorni, settimane della vita di Agnès, una narrazione piena di poesia che svela un intreccio raffinato di esistenze, prima tra tutte quella di Colette, una donna apparentemente stramba ma che svela una vita densa di generosità, la vita di una donna che non lascia figli dietro di sè ma tanto amore per chi l’ha avuta nel cuore, una donna lontana da qualsiasi frivolezza eppure innamorata del calcio, sport maschile per eccellenza, al pari dell’anomalo mestiere della calzolaia, svolto con passione e dedizione per tutta la vita.

L’ascolto di questa audiocassette svela ad Agnès una vita nascosta ma incredibile, fatta di amicizia e di amore, una vita comune eppure eccezionale e ogni ora ascoltata, mentre la zia le parla, diviene straordinaria, il racconto di una vita complessa, lenta, dignitosa ma soprattutto libera.

La narrazione è meravigliosa, apprezzabile da chi ama i libri lunghi e lenti, le storie raccontate sono quasi visivamente cinematografiche in una scenografia che ha tutta la poesia e la gentilezza delle campagne francesi; si raccontano la nostalgia, la lentezza, le piccole cose, le vittorie al pallone e i dischi degli Abba da ballare in maglietta e capelli al vento.

Concludo così: “Mi tremano le mani. Me la prenderò con calma, voglio scoprire quelle cassette poco a poco, come un regalo. Non le ascolterò in ordine, chiuderò gli occhi e lascerò fare al caso, come quando si legge un libro che non si vuole divorare, ma assaporare. Ho tutto il tempo che voglio”.

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“La casa sul mare celeste” di T. J. Klune

Oggi vi parlo di un libro verso il quale avevo grandi aspettative, benchè purtroppo in parte deluse, ma trattandosi di un volume in merito al quale le opinioni concordano sull’elevata qualità del romanzo ho ritenuto possa essere comunque interessante parlarvene. Io l’ho letto grazie ad un gruppo di lettura, essendo il cosiddetto “libro del mese”, altrimenti non lo avrei mai affrontato facendo parte di un genere letterario che non mi appartiene, ma concordo sul fatto di essere scritto bene, nonostante un paio di passi verso la fine mi abbiano infastidita moltissimo e che, casomai, ve li metto alla fine premettendo la parte spoilerata.

Il protagonista è Linus Baker, un assistente sociale impiegato presso il Dipartimento della Magia Minorile, compito che esegue con assoluta dedizione, rigidità e scrupolo, assicurandosi che i bambini magici crescano in apposite strutture, separati da quelli comuni; egli vive una vita monotona al limite della noia, in compagnia di una gatta schiva al pari suo e di una collezione di dischi in vinile, almeno finchè non viene convocato, senza alcun preavviso, nell’ufficio della Suprema Dirigenza, notizia che lo accoglie con non poca agitazione e preoccupazione.

Scopre così di essere stato scelto per un incarico segreto sull’isola Marsyas al fine di stabilire se il direttore dell’orfanotrofio, tale Arthur Parnassus, abbia i requisiti per gestirlo e se quindi questo debba o meno rimanere aperto; appena sbarca sull’isola, oltretutto stupenda, verdeggiante e in riva, appunto, al mare celeste, si rende conto che i bambini che occupano l’orfanotrofio sono molto diversi da quelli dei quali si è occupato sino a quel momento e che Parnassus in realtà, dietro ai proprio modi affabili, nasconde qualcosa di molto doloroso.

Il romanzo scorre molto bene e tratta i temi della diversità e dell’accettazione, ma lo fa in maniera divertente senza sminuire il valore della narrazione, i personaggi sono tratteggiati in maniera molto accurata e ironica, a tratti risulta essere commovente e tutto ciò cambia in qualche modo l’atteggiamento di Linus che, abbandonando la propria rigidità, svela una parte di sè dolcissima ed inaspettata. Quindi, come vedete, il motivo della delusione è esclusivamente personale: il romanzo è scritto benissimo nonostante alcune critiche feroci ricevute in quanto sembra che l’autore, per sua stessa ammissione, lo abbia ideato ispirandosi ad una crudele storia di cronaca nera, il che a molti non è andato giù avendolo visto quasi come una sorta di sciacallaggio e di sfruttamento del dolore altrui.

ATTENZIONE SPOILER.

E veniamo alla parte che mi ha infastidita moltissimo: alla fine vengono piazzati i consueti rapporti queer, perchè sembra quasi che attualmente se non ci metti la storia omosessuale non si sia in linea con il pensiero dominante e non si possa vendere; per me, pur nel consueto rispetto di tutti (e chi mi conosce sa quanto io abbia sempre difeso i diversi e gli emarginati), questa l’autore se la poteva anche risparmiare.

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“Fiori per Algernon” di Daniel Keyes

“Fiori per Algernon” l’ho conosciuto grazie ad un gruppo di lettura, altrimenti dubito lo avrei mai letto e sarebbe stato un gran peccato perchè scorre benissimo ed è un concentrato di umanità doloroso e consapevole.

Algernon è un topo, ma non un topo qualsiasi in quanto, a seguito di un intervento sperimentale, lo stesso triplica il proprio quoziente intellettivo, tant’è che, al pari suo, il medesimo esperimento viene condotto su un essere umano, Charlie Gordon, un giovane uomo cresciuto con la dolorosa consapevolezza di essere diverso, rifiutato dalla famiglia ma accolto da un gruppo di colleghi, che però gli si rivolteranno contro non appena egli, a seguito di tale esperimento, sarà in grado di elaborare un pensiero proprio e critico, pertanto scomodo al alcuni, di certo a coloro i quali sino a poco tempo prima lo deridevano facendogli credere di averlo a cuore.

Questa è la consapevolezza che maggiormente ferisce dell’intero libro, quella che a me ha fatto più male in quanto, pur egli mantenendo un atteggiamento umile, viene accusato di presunzione, scambiando la sua “nuova” capacità di ragionamento per mera prosopopea; purtroppo però l’effetto dell’esperimento non sarà duraturo, tant’è che ciò si nota inizialmente nel progressivo deterioramento delle facoltà cognitive di Algernon, il topo di laboratorio che Charlie cerca di salvare da una inevitabile fine, sino al decesso dello stesso che viene sottratto alla cremazione in laboratorio a favore di una degna sepoltura.

In questa occasione Charlie, consapevole di quanto lo aspetti, chiede a Dio di non toglierli tutto e questo è il passo più commovente dell’intera narrazione; il resto lo ometto per ovvie ragioni, ma posso dire che l’unico desiderio di Charlie è che vi siano sempre dei fiori sulla tomba di Algernon, alla fine l’unico amico che abbia mai avuto e che lo abbia accettato per ciò che è stato.

E’ il diario di un uomo che voleva essere come tutti gli altri, è una richiesta di accettazione, è un libro scritto in maniera magistrale e che tocca le corde profonde dell’anima.

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“La paziente silenziosa” di Alex Michaelides

Questo è stato un libro che non rientra a pieno titolo tra le letture che di solito affronto e infatti lo avevo acquistato molto tempo fa per mera curiosità, per poi parcheggiarlo su uno scaffale della mia libreria. E invece… bellissimo, letteralmente divorato in tre giorni!

La paziente silenziosa, figura che dà il titolo al romanzo, è Alicia Berenson, un’artista che, chiusasi in un mutismo assoluto dopo il presunto assassinio del marito, stuzzica la curiosità dello psicologo Theo Faber, il quale, mosso dal desiderio di conoscere il movente del delitto e, conseguentemente, del mutismo della donna, riesce ad essere assunto dalla clinica in cui la stessa viene curata, nonchè ad averla come paziente.

Nonostante Theo si trovi ad affrontare gli ostacoli frapposti da un collega, a dire il vero poco trasparente, insiste nel voler penetrare il mutismo di Alicia, sicuro di potercela fare e di capire cosa sia accaduto in realtà al marito Gabriel, certo che le cose non siano come appaiono; la narrazione si svolge alternando il punto di vista di Theo in veste di narratore e di psicologo e quello di Alicia, ripescato nel passato della stessa, in un magistrale alternarsi di fatti e di punti di vista che inducono il lettore a proseguire nella lettura e infondendogli la curiosità di comprendere quanto emerge capitolo dopo capitolo, evidenziando un gioco subdolo e manipolatorio.

E’ difficile raccontare di più senza sconfinare nello spoiler, ma si tratta di una situazione borderline assolutamente intrigante, in cui alla fine il lettore si trova spiazzato e forse anche un po’ preso in giro, non nel senso di arrivare alla frustrazione, ma di rimanere stupito, sconvolto, esterefatto dal percorso che improvvisamente accompagna al finale.

Lo stile di scrittura è molto scorrevole, pur se asciutto, ma porta ad un crescendo di curiosità che accompagna il lettore da un capitolo all’altro senza permettere pause; il narratore non gioca in maniera onesta con il lettore fino alla fine ma è proprio in questo che risiedono il pathos e la necessità di arrivare sino alla fine, a perdifiato da un capitolo all’altro.

E’ trascinante, è borderline, è travolgente, è incredibile nel finale, un finale secco, inaspettato, che alcuni lettori non hanno gradito ma, sì, ci stava assolutamente.

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