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Il profumo della lettura

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“Acciaio” di Silvia Avallone

“Millecinquecento gradi, è questa la temperatura di fusione della lega. L’acciaio non esiste in natura, non è una sostanza elementare. La secrezione di migliaia di braccia umane, contatori elettrici, bracci meccanici, e a volte la pelliccia di un gatto”.

Piombino, via Stalingrado, dove la vita è dura, claustrofobica, cupa, gelida come l’acciaio, il prodotto dell’acciaieria Lucchini, “la fabbrica” intorno alla quale vortica la vita di un paese intero: siamo nel 2001, il calore estivo è soffocante e su questo panorama desolante si stagliano le vite dei protagonisti, letteralmente in un “complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile dove i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano”. Non è un panorama idilliaco, ma è qui che incontriamo Anna e Francesca, quattordicenni la cui amicizia nasce tra i banchi scolastici, avide di voglia di crescere nonostante il rischio che ciò comporti nell’ambiente spettrale sopra descritto; eppure sognano, con lo sguardo costantemente rivolto verso l’Isola d’Elba, con la consapevolezza del turismo danaroso che la abita, in stridente contrasto con Piombino, un braccio di mare a dividere la ricchezza dalla mancanza di un futuro. Sognano un domani lontano dalle case popolari e dalla violenza maschile di chi vive male, di chi si smazza in fabbrica per quattro soldi rovinandosi la salute e il futuro, dove non si va al cinema, nè in biblioteca, nè tantomeno in vacanza. Anna e Francesca sono di una bellezza rabbiosa densa di fragilità nascoste, ballano seminude dinanzi ad una finestra aperta sfidando il mondo e cercando di dimenticare la realtà familiare, il veleno dell’altoforno, le violenze quotidiane, l’indifferenza, la stessa indifferenza di un medico che, curando le ferite di Francesca, conseguenze delle botte del padre, finge di non vedere coprendo quindi le menzogne della famiglia, tanto il proletariato non conta nulla.

Nella visione di questa società metallurgica il popolo non lotta, magari di facciata proclama lotte sindacali ma si allinea al padrone, il mito non è il rivoluzionario ma il capitalista, il tutto condito da violenza, droghe, rassegnazione e infortuni mortali; l’unico rapporto umano che ha un senso è quello tra Anna e Francesca, anche se subisce degli scossoni pesantissimi ad un certo punto del romanzo, perturbato dal sentimento e dall’autodistruzione di una delle due amiche.

Il libro è terribilmente asciutto, claustrofobico e rappresentativo di una generazione oramai priva di valori, senza ideali, abbandonata anche da quella politica che potrebbe permettere qualche forma di lotta sindacale, qualche miglioramento, ma la sfiducia distrugge ogni alito di speranza portando ad un immobilismo pesantissimo; lo stile di scrittura è duro, incalzante, tostissimo. Ti porta a capire che per stare dalla parte sbagliata del mondo non serve recarsi lontano, delle volte pochi chilometri possono fare la differenza; arriva a farti male, sono capitoli forti che lasciano il segno, il tutto grazie ad una penna superba, una scrittrice bravissima.

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“Il piccolo negozio della felicità Hygge” di Rosie Blake

Ultimamente vi ho proposto una quantità di libri molto belli, ma non proprio pregni di gioia o di leggerezza, quindi oggi ho deciso di condividere uno di quei libri coccola che, pur non costituendo esempi di alta letteratura, comunque mi hanno regalato dei momenti di calma e di serenità impagabili; avete presente quei libriccini invernali che vi fanno apprezzare un divano, una copertina ed una tisana calda? Ecco, nei momenti di maggiore caos mi sono rifugiata tra queste pagine e il relax ed il benessere che ne ho ricavati sono stati salutari.

Clara Kristensen è una giovane donna danese che approda, per una semplice vacanza dopo un periodo non proprio dei migliori, a Yulethorpe, nel Suffolk: qui vi è un negozio di giocattoli sulla via della chiusura per mancanza di clienti, il che rispecchia lo stato di abbandono in cui inizia a versare la località, e verso il quale prova immediatamente una sorta di attrazione. Il negozio è gestito da una proprietaria in procinto di partire per la Spagna, una donna dallo spirito nomade e un notevole caos interiore, come si può notare sin dal primo capitolo (che, vi avviso, non invoglia a proseguire nella lettura in quanto confusionario e di scarsa qualità, a mio avviso, ma non demordete e proseguite, ne sarà valsa la pena); Clara prova un tale trasporto verso l’occasione che le si presenta davanti e avanza alla proprietaria la proposta di mantenerle il negozio aperto, gratuitamente, in cambio della possibilità di alloggiare nel piccolo appartamento sito al di sopra della bottega, facendosi quindi anche carico del pappagallo (una sagoma!) e del gatto che diversamente dovrebbero venire affidati a delle cure esterne, rimanendo quindi soli tutto il giorno. La sua proposta viene accettata a da qui si apre il mondo magico che Clara, con la sua delicatezza, la sua sensibilità e la fantasia enorme che la caratterizza, riesce a creare, partendo da una caotica bottega malandata, da un appartamento in condizioni deplorevoli e da un magazzino che è l’apoteosi del caos e la rappresentazione della vita della proprietaria.

La magia che Clara riesce a compiere sugli abitanti di Yulethorpe è incredibile, non fosse per le cattiverie che le vengono rivolte da una compaesana intenzionata ad acquistare l’immobile e per l’improvvisa presenza di Joe, il figlio di Louisa, la proprietaria, un giovane che si è perso per la strada barattando la propria felicità per la carriera e per gli affari; tuttavia piano piano Joe riesce ad ammorbidirsi e inizia a ricordare le piccole gioie dell’infanzia, la spensieratezza provata prima di iniziare la scalata al successo al fine di compiacere un padre assente, comincia quindi ad osservare le qualità di Clara con occhi diversi, apprezzandone la calma e quella costante ricerca del benessere mentale che a lui manca completamente.

Non si tratta di alta letteratura, ma è un libro che infonde una tranquillità incredibile, già a partire dalla copertina, che ci porta davvero a comprendere quali siano il potere di un’atmosfera rilassata, del bagliore di una fiamma di candela, di una torta appena sfornata e del suo profumo, il potere del calore di una famiglia, quella che abbiamo sempre data per scontata e che ultimamente si sta perdendo tra pensieri rivolti alle problematiche professionali, agli orari sballati a causa dei quali qualche membro di casa manca sempre, allo stesso mondo lavorativo che ci ha oramai derubati della giusta pausa pranzo tra le mura domestiche. Queste pagine sono un inno alla calma, al calore dell’anima, alla giusta attenzione per le piccole cose, allo spazio per la creatività, all’infanzia collocata nell’ambiente domestico e non parcheggiata in strutture asettiche.

Se la sola lettura un romanzo di questo tenore infonde così tanta calma proviamo a pensare ad una vita di questo tipo, a rallentare e rivalutare i nostri ritmi, senza appellarci a scuse e a presunte impossibilità di mettere in atto un modo di vivere diverso da quello socialmente imposto, ma imponendo le nostre necessità davanti a tutto il resto, con buona pace degli altri e godendoci il nostro ritrovato benessere.

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“Cuore nero” di Silvia Avallone

Avevo già letto un precedente romanzo di Silvia Avallone, inizialmente sottostimato e del quale magari ne parliamo tra qualche post, quindi sono stata incuriosita da “Cuore nero”, ambientato a Sassaia, un paesino di montagna oramai spopolato, difficile da raggiungere, privo di quasi qualsiasi servizio. A Sassaia però arriva dal nulla una nuova abitante, Emilia, trentunenne “adolescente” negli atteggiamenti, nel dolore, forse anche nella immaturità, e tale arrivo sconvolge la comunità locale di benpensanti e di calma piatta, in cui tutti si conoscono e dove la presenza di una “straniera”, oltretutto non delle più ordinarie, inizia ad alterare gli equilibri consolidati da tempo.

Tra gli abitanti di Sassaia spicca la figura di Bruno, il maestro del paese, quasi coetaneo di Emilia nonostante alla prima lettura sembra quasi tra i due vi possa essere un vasto divario di età; ambedue portano con sè un dolore antico, ambedue rivestono un’aura gotica che permea l’intero romanzo, sin dal titolo e dalla copertina. Sono due persone sole, sofferenti e chiuse in se stesse, nel proprio dolore, però si incontrano e si innamorano, pur portando con sè profonde cicatrici: Bruno è accompagnato da una perdita che nel romanzo si ispira ad una storia tragicamente accaduta, è un sopravvissuto per caso fortuito, probabilmente perchè il destino quel giorno aveva deciso diversamente, mentre Emilia porta con sè una cicatrice profonda, insuperabile, che scopriremo solo nelle ultime pagine, conosciuta unicamente dal padre Riccardo che, nonostante tutto, le è sempre rimasto accanto, anche negli anni più bui, senza mai perdere fiducia in lei, senza mai vacillare nonostante l’opinione pubblica, le accuse, l’odio non detto dei più, un padre che le permette di rinascere dalle profondità degli inferi. Riccardo è un punto di luce in un romanzo oscuro, al pari di Basilio, un compaesano che darà fiducia ad Emilia permettendole di esprimere le proprie doti artistiche e di restauro, facendo sì che anch’ella possa portare qualcosa di buono a Sassaia, nonostante le malelingue più feroci, tra cui il veleno scaturente dalla gelosia di una collega di Bruno, che scava nel passato di Emilia per poterla colpire nel punto di maggiore fragilità. Sarà proprio tale ferocia che la porterà, per un breve periodo, a fuggire da Sassaia alla volta di Milano, alla ricerca di Marta, amica degli anni più bui, ma che è riuscita a rifarsi una vita di successo, lontana da quella povertà che l’ha erosa negli anni, dimostrandosi sgamata anche nelle situazioni più pesanti, ma che affronta il mondo a muso duro cercando di infondere la medesima sicurezza anche in Emilia, pur se con scarsi risultati.

E’ un romanzo che ci accompagna tra vare tematiche sociali, dalla pena quale rieducazione, alla frustrazione dell’umiliazione che talora dà adito ai gesti più feroci, quelli che ti segnano per la vita, c’è il concetto di irreparabilità del danno commesso, ma anche della costante possibilità di costruire qualcosa di bello pur se dalle ceneri del male, di cercare di sviluppare quell’ultimo barlume di bontà che ci è rimasto, di far sì che non sia il male a prevalere. E’ un romanzo tosto e crudo, ma bellissimo, pieno di speranza nonostante tutto perchè se su tale devastazione nascono il bene e l’amore allora tutto è possibile. Ed è scritto davvero benissimo.

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“Il re delle volpi” di Fiore Manni

Dopo tanti romanzi impegnativi oggi vi porto con me tra le pagine di una favola molto gradevole anche per gli adulti, in un mondo onirico dove ogni tanto è bello ritornare bambini, in un’atmosfera molto cottagecore e perfetta per chi non ha mai abbandonato il proprio amore per la magia e le fiabe.

La narrazione è ambientata nell’anno 1899, in Inghilterra, dove la famiglia Crawford si trova a dover cercare marito per la figlia Marian, da poco diciottenne e assolutamente recalcitrante nei confronti della tenacia della madre a volerla maritare a qualsiasi costo, tanto più quando scopre l’identità del promesso sposo, tale Carl Lawrence. Sarà proprio in occasione del primo incontro tra i due futuri sposi, presso una villa in campagna della famiglia Lawrence, che Marian si imbatterà in una volpe parlante, Macbeth, che riuscirà a trascinarla nel proprio mondo fatato.

La bellezza del romanzo inizia proprio quando Marian e Macbeth arrivano a Faerie, un mondo fatato ricco di personaggi folkloristici che sembrano usciti direttamente dalla tradizione locale, tra creature pericolose, palazzi magici e soprattutto lui, Aleister, il Re delle Volpi, bizzarro personaggio dal carattere impossibile, viziato e cocciuto ma che, nel dipanarsi della storia, scopre un lato di sè apprezzabile e affascinante. I tre si trovano ad affrontare una situazione pericolosa direttamente correlata alla sopravvivenza del mondo intero, sia di quello magico che di quello umano, e nel viaggio compiuto da questi tre improbabili personaggi il lettore si trova catapultato nelle avventure più assurde, a tratti comiche e grottesche, mentre la simpatia di Aleister piano piano fa breccia nel cuore dello spettatore ma anche in quello di Marian che, ben presto, si troverà a fare i conti non solo con la magia che la circonda e la minaccia ma anche con il proprio cuore.

E’ un libro delizioso, pur nella sua semplicità, quando si ha voglia di sognare con una cioccolata calda ed un libro che riscaldi l’anima, una coccola per ritornare bambini e dimenticare i problemi, più o meno gravi, che ogni giorno ci troviamo costretti ad affrontare.

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“La portalettere” di Francesca Giannone

Vi avevo parlato di “Domani, domani” della stessa autrice, libro che ho apprezzato anche più di questo, oggetto del post di oggi, tuttavia è grazie a “La portalettere” che ho avuto modo di conoscere Francesca Giannone, apprezzandone le doti narrative scorrevoli e piacevolissime per dei romanzi di evasione ma mai banali e scritti bene, motivo per il quale ho fatto un passo indietro recuperando anche questo volume.

Siamo nel 1934, a Lizzanello, una ipotetica località salentina, sede di quello che sarà un amore di due fratelli per la stessa donna: Carlo, figlio del sud che vi fa ritorno dopo alcuni anni trascorsi al nord portando con sè Anna, la moglie “del nord” che ha lasciato un posto di docente per seguire il marito, donna fiera e colta che farà la differenza nonostante la ristretta mentalità provinciale dell’epoca. Antonio, fratello di Carlo, si innamora all’istante di quella bellezza da statua greca e dal carattere fiero ed indomito, dal momento in cui ella entra in quella terra a lei sconosciuta e alle cui leggi non scritte rifiuterà di piegarsi.

Anna non si reca in chiesa e, udite udite, ha l’ardire di presentarsi (una donna!) al concorso delle poste di Lizzanello, concorso che vince sbaragliando altri potenziali concorrenti grazie alla propria cultura: la notizia arreca grande scompiglio in paese, ovviamente, ma Anna non si arrende e non fa una piega ignorando le voci che aleggiano sulla propria persona. Eppure sarà lei a fare la differenza unendo con una sorta di filo invisibile tutti gli abitanti del borgo, consegnando lettere e cartoline di emigranti, di amori segreti, sconfessando vili atteggiamenti di prepotenza, di violenza fisica e psicologica perpetrati da un portatore di immacolata reputazione nei confronti una reietta della società e cambiando il corso della vita ad un paese intero.

E’ un libro molto bello, criticato aspramente da molti gruppi letterari presenti sui social in quanto se non ci si dimostra dei fidi seguaci di Tolstoj non si è nessuno (che poi vorrei vederli con gli Harmony in mano 🙂 ), ma che ho divorato in pochi giorni perchè la trama prende moltissimo ed è scritto bene, senza errori ortografici nè sintattici, senza periodi banali da quinta elementare, e tutto ciò ultimamente non è scontato. E’ un romanzo di evasione? Sì. Ma se l’evasione è confezionata in maniera impeccabile per me è un buon libro. Senza scomodare i grandi russi.

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“Parti e omicidi” di Murata Sayaka

“In un mondo in cui l’amore e il sesso non conducono più alla riproduzione della specie, l’omicidio rappresenta lo stimolo principale alla procreazione. L’intento di sopprimere una vita diventa la chiave di volta per crearne altre”.

Voglio parlarvi di un romanzo “deviante”, di un distopico che alla fine, pur nel suo eccesso, non si discosta di molto dalla realtà, di una raccolta di quattro racconti ambientati a Tokyo in un futuro prossimo ma non poi tanto lontano da quanto potrebbe accadere, stante la realtà malata che osserviamo ogni giorno.

Il fulcro della narrazione è il parto quale unico modo per uccidere legalmente una persona, con modalità ben codificate previa notifica alla potenziale vittima, la quale subirà ogni sorta di tortura, sebbene sotto sedazione in quanto “siamo in una società civile”: agghiacciante, vero? Eppure è a questo scopo che nascono i “gestanti”, donne e uomini debitamente forniti di utero artificiale e disposti a subire dieci gravidanze consecutive e programmate al solo fine ultimo dell’omicidio, ciò al fine di garantire la natalità, ovviamente ferma restando la possibilità di ritirarsi dal progetto prima della scadenza del programma, sempre che nel mentre morte non sopraggiunga visto lo sforzo fisico (e psicologico) richiesto per portare a termine il tutto.

Oltre a tutto ciò la maggior parte delle persone non creano delle comuni coppie bensì delle “troppie” in cui il rapporto a tre costituisce la normalità, nonostante una minima parte di popolazione dalla mentalità retrograda continui a condannarle alla stregua di perversioni.

Non ne avete avuto abbastanza? Allora passiamo ad un altro punto difficile da digerire per una mente sana e normale: chi muore può essere resuscitato, indipendentemente dalle condizioni del corpo, pertanto chiunque non sia interessato a quanto sopra necessita di una formale dichiarazione presentata all’ufficio comunale in cui si richiede esplicitamente la “non resuscitazione”. Demenza pura? No. Ma analizziamo un paio di cose qui di seguito.

Non esistono più i generi uomo e donna: si supera il problema mediante il trapianto uterino… vi dice qualcosa?

La critica al sistema delle “troppie”? In realtà non si tratta di una critica alla monogamia bensì alla resistenza bigotta di una parte della popolazione che potrebbe ambire ad influenzare le scelte della società intera.

E la presenza del matrimonio di convenienza, sulla base di una relazione platonica, sorto esclusivamente sulla necessità di far fronte ai costi crescenti che in tal modo vengono divisi? Magari poi può capitare l’eventuale desiderio di un figlio, che però non verrà mai concepito in maniera naturale, viste le limitazioni poste dalla procreazione assistita imposta da una società eteronormata e di come venga posto in evidenza il valore di un rapporto platonico rispetto ad una relazione basata sui sentimenti.

Sostanzialmente leggendo questo libro, non molto spesso e scorrevolissimo, ci si rende conto quanto poco sia sufficiente a distruggere i pilastri della nostra società e di come, purtroppo, il loro scardinamento sia già iniziato da qualche anno, senza rivoluzioni cruente ma passando per la legislazione e la sanità, il tutto nell’assordante silenzio dell’essere umano che china il capo ed obbedisce.

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“La vita di chi resta” di Matteo B.Bianchi

“Quando tornerai a casa non ci sarò più…” e pensi alla fine di un rapporto, ad una partenza, non che quello che è stato un amico, un amante ed un compagno si sia tolto la vita e che l’abbia fatto a casa del proprio compagno, facendo quindi partire la narrazione dalla fine e portando l’autore a procedere a ritroso, percorrendo molti passi indietro, tra cadute nell’abisso del dolore, pentimenti, frammenti di sopravvivenza.

E’ un libro doloroso, autobiografico, scritto con un coraggio che fa quasi paura per la lucidità con cui l’autore ha messo alla pubblica gogna non solo il proprio dolore ma anche la sua omosessualità; si parla non solo di lutto ma di suicidio, un grande tabù ancor oggi e che per chi vi sopravvive oscilla tra la mancanza di rispetto e una concatenazione di se e di ma.

Il gesto dell’ex compagno lascia il protagonista in uno stato di sensi di colpa per non aver voluto ascoltare quella che era forse una richiesta di aiuto, rinchiuso com’era nel proprio ego, lo lascia in una serie di dubbi: poteva salvarlo? Avrebbe potuto fermarlo? Esistono delle responsabilità a carico di chi è rimasto? Nessuno potrà mai fornirgli queste risposte, tuttavia non è possibile tornare indietro e la confusione fa da padrona ad alimentare il rimorso. E se vi sono delle colpe quale potrebbe essere il loro grado di gravità? In realtà è palese che di colpe non ce ne sono, nonostante sia una verità difficile da accettare, ma è ciò che un’uscita di scena così repentina instilla in coloro i quali hanno vissuto accanto al suicida, i quali si tormentano, si dilaniano l’anima in domande continue, in pensieri distruttivi, in un dolore immenso che non trova riposo.

Qui si comprende come la dipartita, il gesto estremo, abbia lasciato dietro di sè tanta distruzione ma nel contempo anche tanto amore, tant’è che il romanzo risulta essere quasi consolatorio nel dimostrare il dolore nella sua interezza, con una trasparenza che di romanzato non ha nulla e che aderisce perfettamente a quella che potrebbe essere la realtà di chiunque.

La vita di chi resta è questo, è il buio del dolore più profondo, del rimorso e dei sensi di colpa, ma anche la luce della ripartenza, del perdono verso se stessi, di quella luce di speranza che viene infusa ai sopravvissuti; è un romanzo difficilissimo da descrivere in quanto contiene capitoli che volano velocissimi grazie alla delicatezza di scrittura dell’autore (bravissimo!), mentre si soffre in quelli che scorrono a fatica, nella lentezza di un dolore infinito, di inutili sedute psicoterapiche, di incontri con il mondo esoterico dei medium. Alla fine il dolore se ne va solo se ci si passa attraverso, questo l’ho capito da me quando me lo sono trovato davanti, ed alla fine è ciò che ci insegna questa lettura, perchè se anche all’esterno si indossa una maschera dentro di sè si è lacerati, fino a che non viene elaborato il dolore che ci attanaglia, dolore che l’autore è riuscito a sublimare nella scrittura.

Nota di interesse: il romanzo è vincitore del Premio Stresa e del Premio Orbetello.

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“La neve in fondo al mare” di Matteo Bussola

Ero reduce dalla lettura di “L’invenzione di noi due”, dello stesso autore, la cui scrittura delicata e tenue mi aveva colpito favorevolmente, pertanto alla prima occasione ho voluto approfondire con una lettura diversa ma della medesima penna.

Confesso si sia trattato, a mio parere, di una lettura faticosa, pur se sviluppata su relativamente poche pagine, pur se scritta benissimo e con la consueta grazia che caratterizza Bussola; si tratta di un libro sulla fragilità adolescenziale, fotografata in un periodo devastante quale quello del post Covid, quindi assolutamente attuale, periodo in cui se le persone dal carattere più forte sono state mosse da sentimenti di rabbia quelle più deboli ne sono uscite con le ossa rotte.

Queste pagine fotografano la psiche di un gruppo di ragazzi, affetti da disturbi alimentari e da incapacità di relazionarsi a causa della mancata gestione della rabbia, il tutto condito dalla necessaria presenza dei genitori, anch’essi sperduti tra atteggiamenti di negazione e problemi familiari, tra cui spesso l’incapacità di dialogare con il propri coniuge, specie alla luce del problema sul quale è centrato l’argomento della narrazione.

La voce narrante è quella di un padre stanco che ci accompagna a conoscere gli altri personaggi e la loro speranza di rivalsa o, almeno, di una via d’uscita, tra i quali spicca la figura di una madre, autrice di un disperato monologo nel quale ammette di provare dei sentimenti d’odio nei confronti della figlia, tant’è il limite della stanchezza e dell’impotenza nei confronti del disagio mentale. Ci sono le sconfitte di un padre o di una madre, quelle che si riassumono in una sola frase: “E’ che passo la vita a cercare di svuotare il mare con un ditale”. La totale disperazione di un genitore.

Non c’è un vero e proprio lieto fine, ma solo un inizio intriso di speranza, tant’è che è un romanzo che mi ha disturbata, forse per le lotte feroci che ho avuto con mio figlio in età scolare e che mi hanno devastata, lotte e incomprensioni che qui ho ritrovato e che mi hanno generato uno stato d’ansia. Ma è scritto bene, molto bene, nonostante dopo questo io abbia bisogno di una pausa dai libri introspettivi.

Posso dire che vale la lettura, forse a tratti un po’ rallentata e monotona, senza grandi colpi di scena, ma le pagine sono poche e la consueta delicatezza nella narrazione che contraddistingue questo autore è sempre gradevole; in questi mesi estivi le letture sono state tante, ad agosto ho divorato dieci libri, pertanto volevo proporvene qualcuno prima di iniziare con la carrellata descrittiva dell’ultimo viaggio che ho alle spalle, quindi rilassatevi con questo romanzo e poi tenete pronto lo zaino per ripartire!

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“Lacci” di Domenico Starnone

“Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”.

Inizia così questo romanzo, con una lettera che Vanda scrive al marito che ha lasciato la casa familiare lasciandola in preda ad una tempesta di frustrazioni, di rabbia e di domande prive di risposta; lei e Aldo si sono uniti in matrimonio giovanissimi, un po’ forse per desiderio di indipendenza, per poi ritrovarsi a trent’anni con una famiglia a carico in una società profondamente cambiata, che lo porta alla fuga, senza nemmeno tentare un dialogo con Vanda, semplicemente per trovarsi a fianco di una donna giovane e piena di leggerezza, che gli regala la spensieratezza assente dal rapporto con la moglie.

L’intero svolgimento del libro mette in evidenza la vita di Aldo a Roma in contrapposizione a quella di Vanda e dei propri figli a Napoli, nelle difficoltà di una donna che da un giorno all’altro si ritrova a fare i conti con la solitudine e con gli inevitabili problemi finanziari, una lunga riflessione incentrata su quanto si è disposti a sacrificare pur di non sentirsi in trappola, ma anche su cosa perdiamo quando ritorniamo sui nostri passi, il tutto quindi imperniato sui quei “lacci” che legano gli individui gli uni agli altri e che delle volte basta un niente a farli riaffiorare.

E’ una narrazione che ci fa vivere una fuga, un ritorno, una serie di fallimenti, il tutto in un libriccino sottile ed introspettivo; se ne è parlato molto bene ma, nonostante io forse vada un po’ controcorrente, ho quasi sostenuto la posizione del protagonista quando ha scelto la fuga da una donna che mi è risultata insopportabile dopo poche righe e che, anche volendo analizzare la situazione dal punto di vista dell’autore, non mi ha lasciato una bella sensazione nemmeno al termine della lettura.

E’ un libro sul ritorno? Sì. Ma siamo sicuri che il ritorno sia sempre la soluzione corretta?

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“Domani, domani” di Francesca Giannone

“Da soli si può andare in giro. In due si va sempre da qualche parte”.

Kim Novak in “La donna che visse due volte (Vertigo)”, Alfred Hitchcock.

Dopo aver letto il criticatissimo “La portalettere”, della medesima autrice, che a me onestamente è piaciuto molto in quanto scorrevole, scritto bene, da evasione e assolutamente gradevole, mi sono accinta ad intraprendere anche questa seconda lettura, con qualche perplessità visto che ne hanno detto peste e corna e invece l’ho trovato bellissimo, anche meglio del romanzo precedente (non ricordo se ve ne ho parlato, in caso rimedierò quanto prima).

L’intera trama ruota intorno al saponificio di Araglie, una cittadina salentina, fondato nel 1920 dalla famiglia Rizzo e gestito con amore e passione dai due nipoti del fondatore, Lorenzo ed Agnese, nonostante la scarsa attitudine e il pochissimo se non nullo interesse da parte di Giuseppe, padre dei due ragazzi, tant’è che nello snodarsi degli eventi si comprenderà quale sia il motivo di tale indifferenza.

Questo tarlo che rode l’anima di Giuseppe lo porterà a prendere la decisione di svendere lo stabilimento alla concorrenza, generando una insanabile frattura all’interno della famiglia, con la frustrazione di Agnese e la rabbia di Lorenzo, pericolosamente condita da una incrollabile voglia di rivalsa che gli rovinerà l’esistenza.

Non procedo nella trama perchè sarebbe un peccato rovinarvi la lettura, tuttavia l’intero romanzo è condito dall’amore infinito di Agnese per la creazione dei suoi prodotti, dalle sue capacità chimiche e sperimentali, dalla poesia che ella mette nella produzione e dal costante profumo di talco che caratterizza le sue saponette, il tutto accompagnato dalle capacità grafiche di Lorenzo, che disegna le locandine pubblicitarie e le confezioni dei loro prodotti, con una maestria artigianale che ancora oggi, a dispetto della globalizzazione e dell’industrializzazione, risulta tanto affascinante.

Dal 1959, anno del cambio di rotta dello stabilimento, il romanzo vede un intrecciarsi di storie e di personaggi, di voglia di rivalsa, di rapporti lacerati e di riscatto ad ogni costo, sempre contestualizzato in una narrazione estremamente scorrevole ed accattivante, che porta il lettore a divorare un capitolo dopo l’altro, nell’attesa del “domani” e sempre in un’atmosfera permeata dal profumo del talco.

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