
Iniziamo la nostra seconda giornata di vacanza e la inauguriamo con una salita, folle per un camper della stazza di Chewbecca, che ci porta all’Eremo di Santo Spirito a Majella, tanto difficile quanta é stata la bravura di Luca ad arrivarci senza combinare danni, considerato anche l’errore ad un incrocio che ci ha portati ad una retromarcia da brivido.




La meraviglia del sito ripaga della tensione provata lungo la strada in quanto esso è situato a 1132 metri s.l.m. e sorge in un contesto naturalistico unico, scavato lungo una parete di roccia calcarea e circondato da una faggeta nel cuore dell’Appennino Centrale Abruzzese, all’interno del Parco Nazionale della Majella; la sua storia è intrinsecamente legata a quella di Pietro da Morrone, ovvero Papa Celestino V.

La storia dell’eremo evolve nel corso dei secoli, stante che i primi insediamenti risalgono all’VIII secolo, per poi divenire possedimento benedettino nel corso dell’XI secolo, periodo in cui vi trovó ospitalità anche l’abate Desiderio, il quale divenne Papa Vittore III nel 1086. Nel 1246 la chiesa venne riedificata in occasione dell’arrivo del suddetto Pietro e successivamente la confraternita fu annessa all’Ordine Benedettino.


Essa rischiò la soppressione, anche questa scongiurata grazie all’intervento di Pietro presso il II Concilio Lionese, nel 1274, al punto che Pietro venne nominato Priore di Santo Spirito. Tuttavia ben presto egli iniziò ad allontanarsi sempre di più dall’eremo e nel 1293 egli si stabilì nell’Eremo di Sant’Onofrio, a Sulmona, trasferendo contestualmente la Casa Madre dell’ordine a Santo Spirito al Morrone.


Nel 1294 egli venne incoronato papa con il nome di Celestino V mentre la sua congregazione assunse il nome di Celestini, tuttavia dopo soli cinque mesi egli abbandonò la carica pontificia concludendo la propria esistenza nella Rocca di Fumone e spegnendosi il 19 maggio 1296.


Da qui l’eremo iniziò un periodo di decadenza che trovò fine grazie all’abate Pietro Santucci da Manfredonia, che riportò il luogo all’antica bellezza, ulteriormente rafforzata nel 1646 ad opera del principe Marino Caracciolo, il luogo subí ulteriori vicende devastate tra incendi e abbandono, fino al 1893, quando Domenico Bonfitto restaurò definitivamente il sito riprendendo anche la pratica del “Perdono”, ancora oggi in vigore.
Stavolta vi ho fatto un pippone, ma il luogo è talmente bello che valeva davvero la pena approfondirne le vicende… purtroppo abbiamo lasciato il luogo subito dopo la visita, ma vi assicuro che vi sarei rimasta volentieri ancora un paio d’ore.


Ripresa la strada, nuovamente da brivido, per il ritorno, ci siamo diretti alla volta di Roccascalegna: che incanto! Un borgo ricco di attività artigianali, riccamente decorato in ogni angolo, al punto che tutti gli sportelli dei contatori delle abitazioni sono dipinti con motivi floreali, sotto le volte dei ponti sono appesi merletti, tegole decorate e si ammirano ghirlande luminose in ogni angolo di strada!

Arriviamo al castello sotto un sole impietoso, ma la fatica viene ben presto ricompensata da un edificio bellissimo e mantenuto con amore e precisione! Si tratta di un’ampia struttura difensiva che sorge sulla cima di una sporgenza rocciosa, di fondazione molto antica ma più volte ampliato nel corso dei secoli, sino ad arrivare ai restauri del XX secolo che hanno permesso di renderlo visitabile.



Di fatto esso nacque dall’ampliamento di una semplice torretta di guardia longobarda, cui seguirono restauri ed ampliamenti, soprattutto ad opera dei signori di Annecchino e dei baroni di Carafa, con l’aggiunta di torri e l’edificazione della cappella del SantissimoRosario, in seguito anche grazie alla signoria dei Corvi, poi ne seguì la distruzione del ponte levatoio e l’edificazione della garritta all’ingresso, unitamente al rafforzamento del muro di protezione della rampa di accesso. Seguirono ulteriori crolli, finché il castello venne donato al Comune dagli ultimi proprietari, i Croce Nanni, decretandone quindi la rinascita grazie ad un cospicuo restauro.




Il castello porta con sè alcune leggende, tra le quali quella in cui si narra che il barone del castello, tale Corvo de’ Corvis, pretese lo Ius primae noctis, ossia l’obbligo per tutte le donne del paese di trascorrere la prima notte di nozze con lui anziché con il neo consorte; si narra anche che egli sia stato accoltellato proprio da una di queste donne o dal proprio consorte e che la sua ultima impronta insanguinata ,in punto di morte, sia stata lasciata su una roccia e che la stessa, in occasione di ogni restauro, sia sempre ricomparsa nonostante i ripetuti lavaggi.




Prima di lasciare il borgo, terminata la visita al castello, ci siamo fermati presso un birrificio artigianale… trovate i riferimenti nelle didascalie e, se passate di là, fermatevi per una pausa rinfrescante perché ne vale la pena!