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“L’eco lontana delle onde del nord” di Corina Bomann

Immagine tratta dal web

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In quel momento mi accorsi che dietro il rivestimento c’era qualcosa. Era un pezzetto di carta ripiegato più volte: una lettera, scritta con calligrafia convulsa. L’inchiostro era sbiadito, le macchie di umidità avevano cancellato alcune parole. Ebbi una fitta al cuore.

«Quella barca l’ha comprata un tizio della Germania Est» disse. «Ne è passato di tempo, qualche anno dopo la riunificazione.»
«Sì, ma ora è mia» gli spiegai, fingendo di non essermi accorta del lieve disprezzo con cui aveva pronunciato le parole “un tizio della Germania Est”.

Nuovamente ho scelto un libro in base all’ambientazione, grazie al mare che in me crea sempre un’attrazione magnetica, qualunque ne sia la latitudine: qui ci affacciamo sulle coste del Baltico e l’ambientazione si srotola tra Amburgo, Rügen e Sassnitz, luoghi meravigliosi della Germania del nord, di un fascino terribile, sferzati dai venti gelidi marini eppure in grado di regalare, durante la bella stagione, un sole inaspettato.

Qui incontriamo Annabel che, con la compagnia della dolcissima figlia Leonie, sta cercando di ricostruirsi una vita dopo un periodo lacerato dai dolori di un passato mai dimenticato e di un matrimonio fallito miseramente e proprio nel momento in cui mette nuove radici le cose sembrano cambiare completamente, iniziando a volgere per il meglio; il tutto parte dalla “Rosa delle tempeste”, imbarcazione male in arnese che nel corso della sua lunga vita è stata utilizzata quale peschereccio, quale dragamine ma, soprattutto, per aiutare nella fuga i tedeschi della DDR verso il benestante Ovest e verso la libertà.

Alla base della vita di Annabel c’è una storia ancora non chiarita legata agli eventi precedenti la caduta del muro e continuamente si imbatte in episodi ancorati alla situazione politica dell’epoca che ha segnato tutti coloro i quali rivestono una posizione significativa nel testo: da Christian, che diverrà suo socio in affari nell’acquisto dell’imbarcazione, al gestore di uno dei principali alberghi della zona, all’ex capitano della “Rosa delle tempeste”, tutti indissolubilmente legati alle violenze perpetrate dalla Stasi nell’epoca antecedente l’unificazione tedesca.

I tratti storici sono appena delineati, tuttavia nell’armonia di un romanzo scorrevole e arioso è chiaro l’atteggiamento repressivo e i relativi danni causati dall’operato del MfS (Ministerium für Staatssicherheit, comunemente conosciuto quale Stasi), a prescindere da valutazioni ideologiche o politicizzate che qui non trovano fortunatamente spazio: è un romanzo, fine a se stesso, ma che trova fondamento in ciò che ha veramente rappresentato per il popolo tedesco un periodo buio della storia e che magari il lettore può avere l’occasione di approfondire un po’ per propria cultura personale.

Colpisce come, tra le pagine, l’autrice abbia voluto evidenziare una sorta di emarginazione e di atteggiamento sprezzante, da parte degli abitanti tedeschi dell’ovest, rispetto a quelli dell’ex Germania filosovietica, quali fossero dei diversi, degli emarginati a causa della loro povertà.

In queste pagine c’è lo spazio per il riscatto, per un equilibrio ritrovato, per la volontà di rinascita, per il perdono, per la volontà di abbandonare il rancore a favore di una giustizia dei sentimenti pur senza dimenticare ciò che è stato e i torti subiti, le vite rovinate e perdute.

Ancora una volta ho scelto un romanzo dei sentimenti, senza un vuoto dietro ma con un’ambientazione ben precisa e radicata nella storia dei popoli, raccontata in modo non pesante ma efficace e situata in un contesto geografico affascinante, un’opera in cui alla fine la vera protagonista è la “Rosa delle tempeste”, ma in cui l’elemento umano è evidente nella prosa pacata narrante i sentimenti in maniera molto intima e privata pur nella loro devastante potenza.

 

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“Una casa sul mare del nord” di Nina George

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Non è mai troppo tardi, mai, nemmeno un’ora prima del nulla.

Avevo già incontrato, sulla mia strada di lettrice vorace, questa autrice con “Una piccola libreria a Parigi”, ma ero rimasta un po’ interdetta dal suo stile un po’ strano, forse per i miei gusti troppo confuso, diverso da ciò cui sono abituata di solito… invece con questa seconda lettura forse ho iniziato a comprenderla meglio perché le sue frasi talora rimangono con il senso sospeso nel vento, cariche di una poesia che caratterizza ogni riga che esca dalla sua penna, ricche di una delicatezza cui forse non sono avvezza.

Qui si narra il ritorno alla vita di Marianne, il suo ritrovare la strada dopo aver cercato la morte, il suo anelito profondo di esistere e di rinascere dopo aver toccato il fondo più cupo della propria spersonalizzazione, vittima dell’indifferenza di un marito che l’ha annullata in ogni sfumatura della sua personalità.

Marianne è tedesca e inizia il suo viaggio verso la vita proprio dalla ricerca della morte, sopravvissuta ad un tuffo da Pont Neuf e salvata dalle gelide acque della Senna da un clochard gentile e premuroso, ma ben presto da Parigi si trova in Bretagna e lì esplode tutto il suo bisogno di riscatto, la sua rivendicazione dei sentimenti sopiti ed annullati, schiacciati dalla personalità egoista di un uomo sbagliato e fedifrago che ben presto si mette sulle sue tracce per trovare dinanzi a sé una donna cambiata, una donna che a sessant’anni si è innamorata, che ha avuto il coraggio di rimettere in discussione tutta se stessa grazie alla generosità degli abitanti del meraviglioso paese sull’oceano cui è approdata seguendo una tegola dipinta che lo rappresentava.

Ed è proprio all’autore di quella tegola che lei arriva, riconoscendolo subito come la sua perfetta metà, lontano anni luce dalla pochezza della vita che ha lasciato a casa e che, nonostante i mille dubbi e i sensi di colpa che l’attanagliano, continua ad attenderla con amore, dedizione e pazienza.

Marianne è una donna che diventa molto bella, a tratti speciale, quasi una maga che solo al contatto con gli altri ne riesce a captare i pensieri più intimi, che riesce ad entrare negli anfratti dell’animo umano, che la notte si siede sulla spiaggia e suona alla luna, che nella notte di Samhain può sentire il mondo dei morti che si congiunge a quello dei vivi… ed è grazie al suo istinto che riesce alla fine a scegliere la strada giusta, quella che porta alla sua felicità e a quella dei paesani che l’hanno amata da subito, all’amore di Yann e al ricordo dolcissimo di Sidonie, al cuore di tutti gli altri abitanti di Kerdruc che generosamente le hanno insegnato la lingua bretone e tutte le tradizioni pagane che costantemente arricchiscono le pagine di questo libro dolcissimo e poetico.

E’ un testo delicatissimo, ben scritto nonostante (a mio avviso) un errore di traduzione nelle prime pagine che mi ha confuso un po’ le idee, è un libro da leggere perché è un inno alla vita, alla volontà di trovarvi quanto di più bello vi possa essere in qualsiasi situazione, è poesia pura, delicatezza, comprensione delle debolezze umane, perdono e tanto tanto amore.

 

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“Il sentiero dei profumi” di Cristina Caboni

il sentiero

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A differenza delle parole, gli odori arrivano dritti ai sensi delle persone. E’ l’olfatto il primo dei sensi in assoluto, perchè si annida negli oscuri recessi dell’anima primordiale e reagisce alle sollecitazioni secondo una serie di archetipi olfattivi nati con l’uomo. E’ emozione pura.

Dopo la lettura de “La custode del miele e delle api” sono ritornata sulle pagine della stessa autrice, incantata dalla sua delicatezza nel trattare i sentimenti e nel delineare il carattere dei personaggi, questa volta inizialmente con più fatica, probabilmente a causa delle condizioni fisiche non ancora ottimali che mi stanno costringendo ad un riposo forzato e che mi stanno innervosendo non poco.

Spesso ho trascorso ore in ascolto della mia musica preferita e rilassante come questa, ma alla fine mi sono rimessa in riga affrontando seriamente la lettura (per chi ancora  non mi conosce abbastanza, quando mi immergo nelle note non connetto più), che comunque nelle prime pagine, a parer mio, scorre in maniera confusa.

Attraversati i primi capitoli ci si ritrova in un romanzo bellissimo, scritto bene e con la consueta delicatezza che contraddistingue questa autrice, in un’atmosfera anomala in cui sono i profumi a condurci per mano in un mondo inesplorato fatto di aromi che si fondono con l’anima.

Le prime pagine partono da un antico laboratorio di Firenze, ma bel presto la storia si dipanerà lungo le strade di Parigi, nei vicoli del Marais, dove Elena, la protagonista, sarà finalmente in grado di riaprirsi alle emozioni, da troppo tempo sopite e volutamente ignorate, semplicemente seguendo un percorso olfattivo tra l’aroma delle rose, del neroli, del bergamotto e del vetiver, lasciando che pian piano il suo cuore si riscaldi tornando alla vita poichè, come per i profumi, l’aroma si sprigiona dando il meglio di sè solo quando il seme viene riscaldato….

Tra le pagine si legge spesso che i profumi costituiscono un sentiero e che solo percorrendolo si potrà arrivare alla piena consapevolezza di sè e di quello che per noi stessi è il profumo perfetto, si apprende che ogni sentimento ha un proprio odore, c’è l’aroma della rabbia, della paura, della felicità… ed Elena riesce a captare queste sfumature nelle persone che ha davanti e proprio grazie a questo dono riesce a comprendere al meglio i sentimenti altrui, ponendosi dinanzi chi la circonda con estrema gentilezza e sensibilità.

Mi ha attratta moltissimo l’argomento trattato poichè, come riportato nella frase di apertura (tratta dalle pagine del libro), i profumi entrano nei recessi dell’animo umano e spesso un aroma mi riporta all’infanzia con una puntualità che nessun altro ricordo può, con una prepotenza che ha dell’incredibile; è vero che il profumo è la prima memoria storica di un individuo, si stampa nella mente e non se ne va più, altrimenti non potrei ancora oggi associare il profumo dell’origano e della maggiorana al ricordo della mia nonna e dell’orto sotto il sole cocente dell’estate, quando l’aria era immobile e si sentiva solo il ronzio degli insetti all’ora di punta.

Posso dire onestamente che questa lunga disquisizione sulle qualità olfattive mi ha rapita in quanto da sempre incantata dagli olii essenziali, dall’aroma dei fiori, dalle profumazioni naturali e non di sintesi, dall’alchimia degli antichi laboratori e dalle relative lavorazioni artigianali, ma soprattutto questo è un bellissimo romanzo sulle insicurezze dell’animo umano e sulle capacità dell’individuo di affrontarle e di superarle.

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“Il mare è sempre lì che ti guarda” di Emiliana Erriquez

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Lo so, vi avevo promesso un ritorno in cucina dopo il primo post dell’anno, ma non posso farcela a causa di un mal di schiena intenso ed acutissimo che non mi dà tregua da quasi una settimana: sono bloccata sul divano e non riesco nemmeno a sollevarmi, neanche a preparare un piatto di pasta e tutto il lavoro di casa tocca ai miei uomini.

In compenso sto dando fondo alla marea di libri presenti sul Kindle, che lavora come un somarello da una giornata all’altra, pertanto ho pensato di stare un po’ con voi almeno nell’angolino della lettura… forse ce la faccio  a farvi una tazza di the, ma i biscottini li portate voi, vero?

Come spesso mi accade sono sono stata attirata dalla presenza del mare nel titolo e chi mi conosce oramai lo sa quanto io abbia il mare nel cuore e di come l’acqua mi attiri sempre in qualsiasi contesto, ma alla fine il libro non ha tradito le mie aspettative, ad iniziare dallo splendido panorama di Ostuni, la città bianca che fa da sfondo alla vita di Barbara e Chiara, amiche dall’età di sei anni e che insieme vivono tutta l’infanzia e l’adolescenza, per arrivare insieme all’età adulta nel corso della quale inizieranno gli scossoni emotivi a seguito di rapporti sentimentali sbagliati.

Dopo molti mesi le due amiche si ritroveranno e analizzeranno insieme gli errori commessi, con la promessa di non separarsi mai  più e da questo punto di snoderanno tutti i dolori della vita coniugale di Barbara, il rapporto incantevole di Chiara con il proprio compagno, la nascita del frutto del loro amore, l’immenso dolore che alla fine interromperà il rapporto tra le due amiche, ma non la loro amicizia immortale.

E’ un libro sull’amicizia, quella squisitamente femminile tanto rara da trovare, lontana anni luce da invidie e meschinità, l’amicizia tra due persone che si sviluppa negli anni, trovandole prima bambine, poi adolescenti ed infine donne, con tutti i loro drammi mentre il mare è sempre lì immobile ad osservarle…

A tratti graffiante e doloroso, spesso provoca un groppo che si ferma in gola, ma scritto in maniera molto scorrevole seppur privo di raffinate figure retoriche quali metafore o iperboli che possono allietare romanzi più sofisticati, eppure entra nell’anima, lo si divora in un fiato e si corre fino alla fine, quando ci si ritrova con una lacrima ancora che scorre sul viso e gli occhi gonfi di pianto dinanzi all’ultimo dono, preziosissimo, lasciato da Chiara a Barbara.

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“La custode del miele e delle api” di Cristina Caboni

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Ho perso la strada.
Ma l’erica mi dona coraggio.
Con l’acacia ritrovo la forza.
Perché il miele è la mia casa.

Molte bloggers lo conoscono già molto bene, vista l’iniziativa legata al libro risalente allo scorso settembre, che io ovviamente mi sono persa in quanto ero all’estero priva di connessione wifi, ma la tentazione è stata talmente tanta che alla fine ho preso l’ebook, senza assolutamente pentirmene.

Mi sono quindi imbattuta in una lettura diversa dal solito, molto delicata e poetica, la cui protagonista è Angelica che, sin da quand’era una bambina, ha un rapporto speciale con le api, tant’è che ne ha fatto una professione itinerante in quanto viaggia ovunque con il proprio camper al fine di dispensare consigli agli apicoltori: in sua compagnia le api danzano perché lei le rispetta, mai ha prelevato più miele di quello che avanza all’alveare per la propria sopravvivenza, lei modula un canto e le api la seguono con una poesia ammaliante.

La meraviglia di quest’opera risiede nei riti antichi, nei luoghi intatti  dell’infanzia di Angelica, del contatto costante con il mare e della sua perseveranza nel difendere a tutti i costi la natura incontaminata dalla speculazione edilizia: lei sa opporsi con tutta l’anima al potere del denaro, essendo in grado di vivere solo grazie ai regali che le api le forniscono periodicamente, e alla fine trova sostegno proprio in Nicola, amore del passato mai dimenticato nonostante le loro vite abbiano preso delle strade divergenti ma che, inizialmente, sembra invischiato nei torbidi interessi finanziari e speculativi del fratello.

Nicola prende le distanze da tutto ciò, difendendo a spada tratta Angelica e il suo amore per l’ambiente, per le api, per l’origine di tanta bellezza che ammanta l’isola sarda in cui il romanzo è ambientato, perché capisce la passione della donna che ancora ama, perché comprende la poesia della natura che li circonda… ed è grazie alla sua caparbietà che l’ecosistema non subirà alcun danno lasciando le api al loro posto e il cuore di Angelica sereno.

La storia narrata è particolare, diversa dalle solite banali trame stereotipate, le parole dell’autrice scorrono dolcemente e con tanta poesia come solo una donna sarebbe in grado di fare, è un romanzo femminile a tutto tondo, ma ciò che più mi ha colpita è stato il rapporto ancestrale che si sviluppa tra la protagonista e i ritmi della natura, nonché la descrizione stessa dell’ambiente, di una magnifica terra bagnata dal mare; è un libro che profuma davvero di cera e di miele poiché la descrizione è talmente intensa da sentirne l’aroma tra le pagine e per rendere al meglio quanto potente sia la forza della natura ci vengono lasciate anche alcune ricette a base di miele e di cera d’api.

Già all’epoca avevo proposto queste preparazioni, ma ora ho voluto approfondire con una delle ricette proposte in calce al libro… visto che quale foodblogger non ho potuto partecipare all’iniziativa legata al romanzo, ho voluto interpretare in maniera un po’ diversa l’accostamento a quest’opera così bella.

Di solito sul viso uso solo una goccia di olio extravergine di oliva e devo ammettere che è meglio di qualsiasi crema vi sia in commercio: è adatto ad ogni tipo di pelle, anche tendente al grasso, perché riequilibra alla perfezione il suo aspetto; lo uso anche sul corpo, sui capelli… potevo non essere attirata da questa ricetta?

Crema per il viso (io ho raddoppiato tutte le dosi):

un cucchiaio di cera d’api purissima

un cucchiaino di miele (ho usato il millefiori)

qualche goccia di olio vegetale (ho usato l’extra vergine di oliva)

Procedimento:

sciogliere la cera a bagnomaria e poi aggiungere il miele e l’olio.

Crema per il viso

Naturalmente ho provato anche questa crema per le mani (raddoppiando anche qui le dosi), sempre in alternativa alla mia solita autoprodotta:

un cucchiaino di cera d’api

qualche goccia di miele (sempre millefiori)

un cucchiaio di olio extravergine di oliva

due gocce di olio essenziale di limone (che avevo terminato, quindi ho usato l”arancio amaro che con il millefiori si sposa alla perfezione)

Procedimento:

sciogliere la cera a bagnomaria e poi aggiungere il miele, l’olio e, da ultimo, l’olio essenziale.

Crema per le mani: uno scatto al volo prima che solidificasse perchè il giallo oro è splendido!

 

In questa nebbiosa giornata grigia la luce era pochissima per avere delle belle foto, ma il colore della cera e del miele è riuscito a dare un po’ di calore e a regalare un raggio di sole….

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“Splendore” di Margaret Mazzantini

Immagine tratta dal web

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“Tutte le relazioni d’amore nascono da una mancanza, ci immoliamo a qualcuno che semplicemente sa accomodarsi in questo spazio aperto e dolorante per farne quello che vuole: farci del bene oppure distruggerci. Nelle relazioni omosessuali questa mancanza è sterminata, forse insanabile”.

Da tempo il titolo soggiornava nella memoria del mio Kindle e alla fine passavo oltre, temendo un libro impegnativo e preferendo romanzi leggeri, soft, trame da commedia o tinte di note rosa, quasi questo periodo fosse un prolungamento dell’estate in cui sono stata accompagnata dai cosiddetti “libri da spiaggia”.

Poi ho deciso, sapendo che “se non ce la faccio lo metto da parte per un periodo più propizio”, ho iniziato le prime righe, poi ho terminato la pagina e ne ho letta un’altra, al che mi sono detta che questa donna scrive davvero bene, con una lirica non di poco conto, ho proseguito finchè i suoi tratti di penna sono diventati entusiasmo puro, videata dopo videata, senza mollare se non a notte inoltrata, con due occhi gonfi di sonno l’indomani in ufficio ma accompagnati dal bisogno di ritornare a leggere, di farmi cullare ancora da tanta poesia.

Forse è un libro attuale, probabilmente anche furbo visto l’argomento che ne è oggetto, ma è intriso di un dolore graffiante, quello del rapporto tra Guido e Costantino, un rapporto di amore e odio sin dall’infanzia, vissuta in un condominio romano degli anni settanta, in una città al tempo stesso sontuosa e decadente, un rapporto tra due ragazzi così diversi: Guido nasce da una famiglia della piccola borghesia, da due genitori assenti ed incapaci di dimostrare l’amore che li lega al figlio, accudito da donne straniere che vanno e che vengono, che in lui provocano un costante estraniarsi dalla vita e dalla gioia; Costantino è il figlio del portiere e vive nell’umiltà del seminterrato, tra la puzza di cavolo e di umidità, ma negli occhi ha una bontà liquida che piano piano conquista Guido, che lo porta anche all’odio nei suoi confronti, sino all’ammissione dell’amore tra i due.

E’ una narrazione che rende omaggio all’amore omosessuale, dolce, delicato, intriso di piacere e di veleno, ci sono attrazione carnale, rifiuto, pentimento, violenza, vergogna, passione e dolore, c’è una scrittura che è un capolavoro, che è riuscita a trasporre verbalmente un sentimento profondamente femminile pur nella violenza maschile, che porta a galla la personalità dei due protagonisti che entrano nel sangue, nel cuore, con il loro veleno e con il loro amore pieno di splendore.

Estratto del testo tratto dal web

Estratto del testo tratto dal web

 

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“Felicità è un pizzico di noce moscata” di Maria Goodin

felicità è un pizzico di noce moscata

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Sono stata attratta dal titolo e dalla copertina, possibili forieri di una leggerezza di cui in questo periodo ho davvero bisogno per staccare la mente da un momento faticoso e che mi sta mandando i nervi a mille, piena di dubbi sull’effettivo valore del contenuto, eppure se ora sono qui a scriverne significa che ne è valsa la pena.

Ho iniziato la lettura destreggiandomi tra personaggi strambi, orientandomi tra assurde manifestazioni di fantasia senza il minimo filo di logica, incerta se rinunciare alle prime pagine o se insistere ancora un po’: ho scelto la seconda opzione e non me ne sono pentita poichè, ad un certo punto, la trama ha iniziato ad intrecciarsi in maniera ineccepibile, rivelando un romanzo di una dolcezza incredibile, un’opera che è  un inno alla fantasia, alla creatività e un’ode all’immaginazione.

La protagonista è Meg, diminutivo di Megnut (noce moscata), la quale si trova a doversi confrontare con il pizzico di follia della propria madre, combattuta tra la dolcezza dell’amore materno e il bisogno di imporre la propria razionalità: in questo percorso Meg verrà continuamente contaminata dal pensiero logico-razionale del noiosissimo fidanzato e dalla fantasia equilibrata e saggia del giardiniere.

E’ un libro che contrappone l’immaginazione che può portare alla cancellazione della realtà a quella che può aiutare ad affrontare il trauma di un passato doloroso e della malattia, è un libro in cui si pongono a confronto l’indomabile fantasia della madre  e la razionalità della stessa Meg, che alla fine comprende di essere stata sempre protetta dal mondo fantastico della mamma, la quale ha voluto cancellarle i dolori subiti e ha cercato di offrirle il meglio di sè e del suo mondo bizzarro.

E’ un testo intelligente, scritto da un’autrice estremamente sensibile, che ha toccato le corde più profonde della mia anima oltre ad aver soddisfatto il mio amore per i libri scritti bene, è davvero un lavoro che ha trattato il tema della malattia in modo delicato e profondo, senza mai perdersi in banalità o pressapochismi, è un romanzo che mi ha fatto versare parecchie lacrime, ma da non perdere assolutamente.

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“1q84” di Haruki Murakami

Di nuovo immersa nella lettura, un po’ distante dai fornelli a causa della dieta, un po’ per stanchezza, troppa stanchezza e tanta voglia di evasione; talora il relax lo si trova in romanzi da spiaggia leggeri come un soffio, talvolta invece c’è il bisogno di introspezione, di letture lente e ricche di spunti di riflessione.

Ecco un romanzo che va al di là del soprannaturale per atterrare sul surreale e sulla multisensorialità e che non annoia mai nonostante i tre volumi (i primi due contenuti in un unico tomo e il terzo edito solo successivamente) e le tante pagine di parole, di mondi paralleli, di realtà assurde che mai vengono preannunciate all’inizio dell’opera.

Ero reduce da “Norwegian wood” e non pensavo di tornare subito sullo stesso autore, soprattutto perché il titolo non mi attirava assolutamente, ma poi un giorno mi è arrivato un messaggino sul telefono, da parte di un amico, che diceva “Hai letto 1q84? E’ un libro strano…” e per prima cosa ho pensato ad Orwell, al suo “1984”, rendendomi conto ben presto del legame tra i due scritti, di come il “q” (che si legge “kyu”, cioè indica il numero nove in giapponese) ci riporti effettivamente ad Orwell, di come anche qui vi sia un surrealismo analogo, di come il “q” faccia esplicito riferimento anche al “question mark”, al punto interrogativo che pervade tutta l’opera in quanto, come ben spiegato nel nono capitolo, quando cambia il paesaggio cambiano anche le regole.

La trama è complessa ma si articola su pochi, chiarissimi personaggi che si trovano a percorrere una parte della strada della propria vita in un mondo parallelo in cui nulla è uguale a ciò che ci si aspetta, in cui le lune nel cielo sono due, la mother e la daughter, in cui il tema centrale è l’amore tra i due personaggi principali, Aomame e Tengo, che si trovano a vivere sotto lo stesso cielo alterato rincorrendo le proprie vite nonostante sia stato detto a lei, Aomame, che l’incontro mai sarà possibile, che sarà salva la vita di Tengo a fronte del sacrificio della propria.

Aomame è sul punto di arrendersi, ma la vita che cresce dentro di sè e che nascerà per partenogenesi, la fa desistere all’ultimo minuto, quando il proposito suicida sta per compiersi, e nello stesso istante in lei sorge una determinazione incrollabile nel voler ritrovare Tengo, amato sin dai primi anni della scuola e mai dimenticato al punto di rifiutare qualsiasi altro rapporto stabile; nonostante l’impossibilità, decretata dal Leader della setta dei Sakigake, di uscire dal 1q84, Aomame non si arrende e, al secondo tentativo, ritrova la strada per rientrare nel 1984 tenendo Tengo per mano come quel lontano giorno di decenni prima.

La struttura narrativa è particolare e tipica di Murakami, basata su un costante dualismo, su punti incrociati, su mondi paralleli: è un continuo rincorrersi ed intrecciarsi di vite, il cui filo conduttore è il costante disagio dell’esistenza nella società contemporanea, eppure alla fine c’è la metaforica dimostrazione della via di salvezza per l’essere umano… la salvezza alla fine è sempre l’amore, descritto come l’unico elemento in grado di rimettere ordine tra i mondi paralleli e nel caos delle cose, l’unico capace di prevalere sulla futilità del mondo.

Confermo che il romanzo è strano, molto strano per chi, come me, non ha mai amato alcuna opera di fantascienza, eppure mi ha conquistata e avrei voluto non finisse mai perché è scritto benissimo, perché Murakami è un maestro che permette di volare anche sui suoi infiniti agglomerati di parole, che perdono ogni possibile pesantezza grazie alla sua maestria; perché i personaggi sono tratteggiati con un tale genio da capirli sino in fondo, da conoscerli per tocco di mano, perché Aomame ad un certo punto esce dalla sua apparente veste spietata per esternare la propria tenerezza, perché Tengo è di una gentilezza infinita e lo si ama subito…. tutto questo mi ha conquistata, a dispetto di ogni possibile aspettativa 🙂

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“Norwegian wood” di Haruki Murakami

Immagine tratta dal web

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Ecco un libro del quale non sapevo nulla quando ho deciso di leggerlo, uno di quei casi in cui non si sa bene dove si andrà a parare, tra chi ne parlava bene, chi lo considerava un mattone: io amo i libri lenti ed introspettivi, quindi l’ho caricato sul Kindle letteralmente a scatola chiusa, senza neppure conoscerne la trama, senza sapere quali fossero i temi trattati, solo attirata dal consueto sesto senso che mai mi ha delusa.

Mi sono trovata dinanzi ad una scrittura gentile, leggera come una piuma, assolutamente non maschile, elegante, squisita ed impalpabile: in fondo è un libro sull’adolescenza che risale a molti anni fa (già pubblicato con il titolo di “Tokyo blues”) ma che, per chissà quale motivo, solo in questo periodo da fatto riparlare di sè nel nostro paese. La costruzione letteraria è ricca di aspetti descrittivi lenti, a volte pigri, ma mai pesanti, le vicende dei personaggi sembrano stesi al sole come ritagli di carta bagnata dalla pioggia… è una storia d’amore, di vita e di morte, una storia dei sentimenti di Toru Watanabe che si intrecciano con quelli di Naoko e dei suoi dolori per la perdita della sorella e del compagno Kozuki, ambedue suicidatisi anni prima, è la storia in cui si affaccia anche Midori, sfacciata e solare, senza però mai entrare nel groviglio di sentimenti tra Watanabe e Naoko. Il male di vivere tocca tutti i personaggi principali dell’opera, eppure c’è chi ne uscirà vincitore e chi ne sarà sopraffatto, quasi la vita giocasse con la morte; l’idea che se ne trae e che viene ben messa in chiaro sin da principio è il ruolo della morte non come antitesi della vita bensì quale parte integrante del percorso di vivere, però tutte le pagine sono permeate da una leggerezza ed un’estrema spensieratezza, da un atteggiamento di profonda naturalezza nei confronti del sesso e dell’autoerotismo senza mai cadere in alcun atteggiamento moralistico nè trasgressivo.

L’idea che io ne ho tratto è stata quella di un’opera rilassante e incentrata sulla naturalezza del vivere, sull’accettazione degli eventi, delle pulsioni naturali, dei sentimenti, sul rispetto dei tempi fisiologici di maturazione delle idee e dei tumulti del cuore. E’ un libro bellissimo, da leggere e da gustare sino all’ultima riga.

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“Finchè le stelle saranno in cielo” di Kristin Harmel

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Per lungo tempo ho rinviato la pubblicazione di alcuni post che riguardassero la lettura, tenendomi sempre da parte qualche bozza mezza scritta senza però decidermi a portare a termine il lavoro: talora penso che non è detto che i libri possano interessare a tutti, ma alla fine la passione per la lettura è stata più forte di me e mi sono decisa!

Questo romanzo l’ho letto molti mesi fa, ma lo rileggerei mille volte perché è pieno di sentimento, perché quando l’ho finito ho pianto tanto, le ultime pagine sono state velate dalle lacrime e quando un libro riesce a trasmettere un’emozione significa che è un buon libro.

La figura chiave, pur non protagonista diretta, è Rose con la sua abitudine, nell’attimo che precede la sera, di volgere lo sguardo al cielo alla ricerca della prima stella del crepuscolo: ciò le riporta la memoria al suo passato trascorso a Parigi, lungo le rive della Senna, e ad una pasticceria i cui ricordi si stanno affievolendo, divorati dalla perdita della memoria. Rose ha un ultimo desiderio, prima di smarrire ogni ricordo, il desiderio di ritrovare la propria famiglia e tale compito viene affidato ad Hope, la nipote, il cui nome oltretutto è davvero di buon auspicio per un compito simile; l’unico punto di partenza per lei è una serie di ricette che quotidianamente mette in pratica nella propria pasticceria, ereditata da Rose, a Cape Cod. Prima di mettere nelle mani di Hope ciò che resta della sua memoria, Rose le confessa di non essere cattolica, ma ebrea e da questo punto si dipana un gomitolo di avvenimenti che trovano il proprio nucleo tra sinagoghe, moschee ed Olocausto, non quello narrato nei libri di storia, ma quello vissuto da Rose sulla propria pelle, quello del proprio passato cui appartiene anche Jacob, l’amore che nemmeno l’Alzheimer che l’ha colpita riesce a spazzar via.

In un’atmosfera profumata di vaniglia, cannella e cioccolato, di cupcakes e di pains au chocolate, Hope decide di partire per Parigi e lì, tra Places des Voges e le stradine del Marais, incontrerà l’unica persona in grado di far luce sui ricordi di Rose, per collegare la tragedia della deportazione degli ebrei alla più grande lezione di vita, quella dell’amore che non muore mai, a dispetto del tempo e della distanza, e che per un’ultima volta accompagnerà per mano il lettore sino alla fine, con le lacrime agli occhi come è accaduto a me.

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